lunedì 15 dicembre 2008

Buone (e cattive) letture natalizie

In fondo a destra…
Antonio Carioti, Gli orfani di Salò, Milano, Mursia, 2008

Il volume di Antonio Carioti è balzato agli onori delle cronache per un allucinante episodio di teppismo ideologico avvenuto la scorsa estate in quel di San Giuliano, quando all’autore fu impedito di presentare presso il municipio della cittadina termale pisana il suo studio sulla stagione del protagonismo giovanile dei giovani di destra nell’immediato dopoguerra.
Peccato per chi non l’ha letto (persone che immaginiamo non leggerebbero neppure le guide del Touring ove fosse riportata l’innominabile località gardesana) perché il volume rivela e raccoglie aspetti solo in parte esplorati da altri autori, in genere con taglio agiografico (su tutti rammentiamo lo studio di Nicola Rao Neofascisti! edito ormai quasi dieci anni fa da Settimo Sigillo), scoprendo un interessante tessuto di consenso che le organizzazioni giovanili e soprattutto universitarie legate al neonato MSI avevano raccolto e consolidato tra la fine degli anni ’40 ed i primi anni ’50.
Si tratta di una prima messa a punto di fatti e questioni che meritano senz’altro maggiori approfondimenti, specie per quanto riguarda il rapporto inquieto fra i giovani post-repubblichini, il partito che solo in parte li rappresentava e le altre forze politiche dell’arco costituzionale; il lavoro di Carioti ha comunque il pregio di aver esposto con prosa semplice, ma non per questo meno documentata, una storia “minore” che comunque mise in luce elementi divenuti in seguito esponenti di spicco del mondo culturale, sindacale e politico della destra italiana.

Sangue sui Balcani
Eric Gobetti, L’occupazione allegra, Roma, Carocci, 2008

Conveniamo con Giorgio Rochat quando sostiene che lo studio di Eric Gobetti sull’occupazione italiana in Jugoslavia (in realtà il lavoro copre solo una ristretta fascia del paese balcanico, a cavallo fra Dalmazia, Erzegovina e Montenegro) ha un titolo poco azzeccato, ed aggiungiamo che la definizione, in quarta di copertina, dell’autore come “giovane storico” (sic) non appare tra le più felici. Detto ciò, il lavoro ha l’innegabile pregio di essere basato su una notevole messe di documenti e rimandi bibliografici italiani e soprattutto in lingua serbo-croata che Gobetti ha reperito in un suo lungo soggiorno nella ex Jugoslavia.
L’occupazione allegra, che in realtà allegra non fu per nulla, del nostro esercito nei Balcani, fu caratterizzata da politiche eterogenee e non di rado conflittuali che misero per due anni e mezzo l’un contro l’altro il governo di Mussolini, il partito fascista, gli esponenti diplomatici che rappresentavano il regno d’Italia a Zagabria, i governanti civili delle province annesse, gli esponenti dell’esercito e quelli della milizia. In questa surreale congerie di interessi e strategie contrapposte, l’unica cosa vera erano i morti ammazzati: serbi uccisi dagli ustasci e croati per mano dei cetnici, civili passati per le armi da italiani e tedeschi perché fiancheggiatori dei partigiani di Tito o dalle forze armate dell’esercito di liberazione jugoslavo perché ritenuti collaborazionisti (e qui divergiamo dall’autore sulla vetusta questione della violenza “buona” e quella “cattiva”, o su una presunta maggiore “moralità” delle forze partigiane nel trattare i propri nemici e le popolazioni che non appoggiavano il movimento comunista). Ultimi solo per ragioni di elenco in questa non lieta rassegna sono i nostri soldati, caduti a migliaia in una guerra poco sentita e assai meno approvata, che correttamente Gobetti paragona a ciò che fu il Vietnam per gli americani.
Elencati i numerosi pregi, non mancano però consistenti difetti nella ricerca; è presente una certa superficialità nella descrizione di reparti e formazioni militari, soprattutto per quanto riguarda quelli croati e tedeschi. Inoltre lascia stupefatti che in un testo in cui vengono utilizzati elementi d’archivio croati e serbi, nonché una vasta bibliografia jugoslava inedita in Italiano, l’autore non trovi di meglio per inquadrare la delicata vicenda di Alojze Stepinac, vescovo di Zagabria, che il volume denigratorio di Marco Aurelio Rivelli L’arcivescovo del genocidio (Milano, Kaos edizioni, 1999). Purtroppo questo rientra in un certo anticlericalismo “di ritorno” che sta finendo per accecare anche gli studiosi più ragionevoli.

Deja-vù
AA. VV., La politica del terrore, stragi e violenze naziste in Emilia Romagna, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2008

Si tratta di un volume collettaneo, curato da Luciano Casali e Dianella Gagliani, che riunisce i frutti di una serie di indagini condotte a livello provinciale in tutta l’Emilia Romagna sulle stragi tedesche e fasciste nel territorio regionale.
Il risultato finale è assai eterogeneo per contenuti e risultati; assieme a contributi di notevole spessore, come quello di Carlo Gentile riguardo alla vicenda di Marzabotto, di Marco Minardi sulle fasi finali dell’occupazione tedesca a Parma e di Massimo Storchi sul Reggiano, altri lavori sono più che altro sintesi di studi precedenti, apportando poche novità al tema e una generale sensazione di deja-vu: mancano infatti ricerche capaci di dire qualcosa di nuovo, o comunque di diverso, su fatti che invece – a parer nostro – necessiterebbero di approfondimenti ben maggiori. Spiace poi constatare che lo spazio dedicato ad alcune province appaia nettamente sbilanciato rispetto ad altre, quasi che di alcune realtà ci fosse da dire quanto basta per riempire cinque paginette scarne di note: è il caso del Ferrarese, descritto dall’incolpevole Davide Guarnieri del quale poco sotto diremo.
Insomma, se questo lavoro doveva essere una sorta di risposta emiliano-romagnola alla corposa rassegna di studi pubblicati presso Carocci in collaborazione con l’Istituto storico della Resistenza toscana, o al volume gemello curato sempre per L’ancora del Mediterraneo da Gianluca Fulvetti e dalla compianta Francesca Pelini (La politica del massacro: per un atlante delle stragi naziste in Toscana, Napoli, ADM, 2006), ci pare che il confronto sia piuttosto sfavorevole per le ricerche svolte al di sopra dell’Appennino.

Storie locali da riscrivere
D. Guarnieri, Il comandante Pietro – Walter Feggi e la Resistenza ferrarese, Ferrara, Corbo, 2008

Dopo una tormentata gestazione, vedono finalmente la luce le memorie di Walter Feggi, comandante partigiano nel Basso ferrarese, pubblicate grazie alla perseveranza e alla competenza di Davide Guarnieri, il quale completa l’opera con una appendice abbondante di documenti e biografie. Dall’opera emergono dettagli che gettano una luce nuova, ed in molti casi inquietante, sulla faticosa nascita, la difficile esistenza e la tragica conclusione dell’esperienza patriottica nelle zone della bonifica estense. L’analisi puntuale e dettagliata del curatore – che davvero sarebbe stata meritevole di essere inserita nell’opera collettanea dianzi commentata – mette in evidenza un elemento su tutti: se il partigiano “padano” nella vicina Romagna poteva contare sul favore e l’appoggio quasi generale del mondo contadino, cosa che consentì ad Arrigo Boldrini di portare la lotta ai fascisti in pianura già nella primavera del 1944, sopra al Reno le cose andarono assai diversamente, nonostante sessant’anni di propaganda abbiano cercato di dare a intendere il contrario.
Feggi e i suoi faticarono a trovare appoggi sicuri nelle campagne, vissero un costante isolamento e la paura di essere in qualche modo infiltrati o strumentalizzati da chi stava facendo giochi doppi o tripli alle loro spalle: memorabile la figura di Labindo Bisi, fondatore del fascio repubblicano di Berra, poi partigiano combattente, sindaco della cittadina a guerra finita e infine ucciso in circostanze misteriose nell’estate del 1945; il tentativo di “ravennizzare” il territorio ferrarese, compiuto dai comunisti romagnoli nell’autunno 1944 tramite un inviato di Boldrini, il comandante “Leo”, si risolse in un tragico fallimento. Questi condusse infatti una serie di azioni scriteriate che ebbero come unico risultato quello di condurre alla cattura decine di patrioti, diversi dei quali furono fucilati o deportati, e alla disarticolazione, all’inizio del 1945, di tutta l’attività resistenziale nella zona di Berra e Codigoro. “Leo”, vista la mala parata, scomparve prima della fine della guerra eclissandosi in modo talmente riuscito da risultare a tutt’oggi (incredibilmente) sconosciuto in tutti gli organigrammi dei partigiani ravennati, nonostante documenti e bibliografia lo citino a più riprese. Un caso in cui davvero si fa fatica a non parlare di “sbianchettamento” di tutto ciò che macchiava il blasone leggendario del partigianato romagnolo.
In conclusione Guarnieri e Feggi scrivono finalmente le prime cose serie e documentate (anzi, sarebbe meglio dire le prime cose in assoluto) sulla guerra di liberazione in una parte dell’Emilia Romagna sino ad oggi ignorata dalla grande storia. E di questo non possiamo che portare gratitudine.

Letto senza essere prevenuto
Roberto Vivarelli, Fascismo e storia d’Italia, Bologna, il Mulino, 2008

Davvero non si capisce l’ostracismo con cui parte della comunità scientifica italiana ha accolto i lavori di Roberto Vivarelli successivi al suo libro autobiografico, in cui narrava la sua esperienza di giovanissimo volontario in camicia nera durante RSI. Desta una certa amarezza il fatto che il giudizio di molti critici attorno a questa raccolta di saggi editi ed inediti sul fascismo non si sia soffermato sui contenuti (i quali possono essere giudicati in modo positivo o negativo per la loro validità), ma, ancora una volta, sul “peccato originale” di non aver esternato in modo chiaro e per tempo le sue scelte di quattordicenne, cosa peraltro non vera, visto che lo studioso senese parlò urbi et orbi sulle pagine de “Il Ponte” negli anni ’50 della sua condizione di reduce di Salò.
Fatta questa precisazione, in questo volume si rinvengono diversi spunti di interesse: il fatto che il regime non produsse particolari traumi nei corpi dello stato (magistratura, burocrazia, forze armate, università, scuola) tanto che risultano numerosi – e ancor oggi poco studiati – i fattori di continuità che il fascismo ebbe con le istituzioni liberali; il “consenso lungo” che la dittatura ebbe secondo Vivarelli anche dopo l’entrata in guerra, almeno fino a che i rovesci bellici non distrussero la falsa immagine della propaganda fascista. Non meno interessante lo spunto sulla persistenza maggiore nella memoria collettiva delle stragi naziste, le quali produssero un numero di morti (circa 10.000) di quasi quattro volte inferiore alle vittime dei bombardamenti aerei alleati. Ed effettivamente ci è sempre parso ingiusto il diverso livello di ricordo fra i bambini uccisi a S. Anna di Stazzema e quelli morti (e furono decine) nella scuola di Gorla, a Milano, a causa di un bombardamento inglese nell’ottobre 1944.
Altre considerazioni appaiono meno condivisibili: a differenza dello studioso senese, riteniamo che le efferatezze dei tedeschi in Italia avevano effettivamente un’impronta di “tipicità” ideologica chiara ed evidente, e che le precedenti esperienze sul fronte russo di molti reparti della Wehrmacht e delle SS avevano largamente contribuito a far considerare tutti i civili italiani untermensch (oltre che verraeter, ovviamente). Neghiamo inoltre che la RSI, in qualche modo sia servita da “scudo” rispetto alle prepotenze naziste.
Detto ciò, le nostre sono opinioni e interpretazioni, esattamente come quelle di Vivarelli. I pregiudizi ideologici li lasciamo volentieri ad altri.

sabato 25 ottobre 2008

…L’otto settembre è memorabil data … (Curzio Malaparte)

I fatti:

A Roma, lo scorso 8 settembre, il ministro della Difesa Ignazio La Russa, nel corso del suo intervento in occasione delle commemorazioni della battaglia di Porta san Paolo, episodio culminante della difesa di Roma contro le truppe tedesche, faceva le seguenti affermazioni:

“…Farei un torto alla mia coscienza se non ricordassi che altri militari in divisa, come quelli della Nembo dell’esercito della Repubblica Sociale Italiana, soggettivamente, dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della patria, opponendosi nei mesi successivi allo sbarco degli anglo-americani e meritando quindi il rispetto, pur nella differenza di posizioni, di tutti coloro che guardano con obiettività alla storia d'Italia…”.

Purtroppo non è stato possibile, neppure nel sito istituzionale del ministero così come in quello del ministro, rinvenire il testo completo dell’intervento. Non siamo quindi in grado, se non per sommari resoconti di stampa, sapere con esattezza in che contesto Ingazio La Russa abbia pronunciato le parole sopra riportate, sulle quali si è innescata una – assai prevedibile – polemica fra giornalisti, politici e storici di ogni parte politica.
Abbiamo deciso di lasciar “decantare” per alcune settimane questi fatti prima di occuparcene; abbiamo infatti constatato anche in questo caso come i temi più profondi e importanti della nostra cultura e della nostra storia recente si riducano ormai a dei battibecchi polemici che durano lo spazio di un istante. Poi gli accademici tornano nei dipartimenti, i giornalisti alla cronaca e i politici ai loro doveri istituzionali. In questa “distrazione di massa” rispetto a fatti e questioni per noi invece di fondamentale rilievo, abbiamo deciso di coinvolgere alcuni studiosi in una tavola rotonda nel corso della quale riflettere su quanto espresso in modo così inequivocabile dal ministro della Difesa.
Abbiamo chiesto quindi agli amici che partecipano al dibattito, che giudizio dare di queste espressioni, specie alla luce dell’occasione in cui le parole sono state pronunciate, ossia nel corso di una cerimonia – quella di porta San Paolo a Roma – nel corso della quale per decenni gli oratori hanno sottolineato il sacrifico delle forze armate in difesa di scelte del tutto diverse da quelle rammentate da Ignazio La Russa.

VINCENZO PINTO: "le parole di Ignazio La Russa sono molto importanti, perché dimostrano come la Repubblica Italiana nata nel 1948 fu in realtà l’esito di una decisione dei paesi vincitori della guerra, in special modo delle truppe anglo-americane. I sacrifici delle forze armate o delle truppe partigiane non sono sentiti da molti italiani come l’espressione dei propri sentimenti (patriottici) più intimi. Lo stesso credo che valga, a parti invertite, per coloro che scelsero di restare fedeli all’utopia dell’ordine nero. L’assenza di sentimento patriottico è solo una conseguenza di tutto ciò che vi è a monte, ovvero la mancanza di profonda consapevolezza per ciò che l’Italia era ed è diventata tutt’oggi: un paese d’irresponsabili piagnoni. Il panorama piuttosto desolante che si staglia di fronte ai nostri occhi, caratterizzato da assenza di senso civico, da partigianeria della peggior risma viene talora inghirlandato con gli interventi di coloro che ringraziano gli eroi che hanno detto di no ai nemici della libertà. È lecito chiederci che cosa sia il vero eroismo: combattere sui monti per difendere l’idea di libertà? Oppure lottare quotidianamente perché la giustizia trionfi sempre quaggiù in pianura?
Ignazio La Russa ha espresso quello che è il comune sentire di molti italiani di oggi, i quali non sono contenti della classe dirigente che ha governato per tanti decenni sostenendo valori che non sono stati in grado di realizzare nella pratica. Mi si obietterà che i valori sono unicamente stelle fisse del firmamento celeste e che poco o nulla servono a spiegare la dura realtà quotidiana. Mi si obietterà anche che l’establishment riflette pregi e difetti della base. Mi si obietterà anche che l’obiettivo di La Russa era quello di screditare una parte cospicua delle forze partigiane comuniste che combatterono soltanto strumentalmente (chi può negarlo?) per la fine del progetto di “ordine nuovo” (nero) europeo. Non credo che le parole di La Russa siano unicamente l’espressione di un malessere di una parte politica, che si è sentita privata per troppi anni della propria fetta di torta e cerca di re-integrarsi nella storia nazionale. Credo piuttosto che siano un monito contro coloro che continuano a parlare di democrazia agendo da anti-democratici, che parlano di rispetto del proprio prossimo trincerandosi dietro le cosiddette circostanze della vita, che parlano di rispetto soltanto fra presunti pari e che discriminano coloro che non la pensano come loro. A tutte queste persone – e non tanto agli “eroici caduti” della guerra – si rivolge il monito di La Russa: il tempo delle chiacchiere vuote è finito".

RICCARDO CAPORALE: "Come ho già anticipato sulla mailing list Sissco penso che il ministro abbia fatto detto qualcosa di non richiesto e, soprattutto, di non dovuto. Era infatti lì per ricordare il sacrificio di quella parte di militari che resistettero ai tedeschi.
Il dibattito storico merita un'altra sede. La cultura della destra (post?) fascista rincorre i miti di sempre: l'onore reso dagli Alleati, la “buona fede” dal “loro punto di vista”. Peccato che il “loro punto di vista” non includesse una buona parte di italiani. Questo è un punto fermo che il ministro, volutamente a parer mio, ignora. Ma nelle sue parole vedo anche la debolezza di un sapere storico che, ancora, non è riuscito a creare un forte dibattito nell'opinione pubblica verso una storia condivisa (non parlo di memorie perché ognuno ha la propria) con valori condivisi, da sinistra a destra.
A mio parere questa è una operazione resa molto più difficile a destra, causa la vicinanza, ideale e no, al mondo salotino nel dopoguerra".

LEONARDO RAITO: "Personalmente credo che sia un segnale di coscienza civile procedere a un tentativo di confronto democratico per costruire una memoria condivisa dei fatti che hanno riguardato l’esperienza della guerra civile. Pur essendo la mia estrazione culturale antifascista, ed essendo portato a rifiutare ogni forma di totalitarismo e di fascismo, devo richiamare l’attenzione sul tema delle motivazioni. Chi e perché aderì alla Repubblica Sociale? Chi e perché salì sulle montagne e decise di intraprendere la lotta di resistenza? Provare maggior simpatia per i secondi piuttosto che per i primi può essere un sentimento umano, ma di certo è talmente soggettivo che non deve inficiare il giudizio di uno storico.
L’analisi poi non tiene in giusto conto dell’immediato dopoguerra. Quanti uomini, che prima furono fascisti convinti, finirono nei ranghi dei partiti di sinistra? Quanti ingrossarono le fila dei partigiani che scendevano dai monti nelle città, magari mettendo al collo un fazzoletto rosso? Nella sola mia provincia (Rovigo), ho raccolto informazioni su casi di importanti dirigenti del PCI che furono prima fascisti. Un libro pubblicato qualche anno fa da un editore torinese aveva denunciato pubblicamente la capacità degli italiani di cambiare bandiera a seconda di dove tirava il vento. Credo che passeranno anni prima che in Italia si possa attivare un sereno dibattito su temi che toccano la sensibilità pubblica. Occorrerebbe un ciclone positivo, in grado di rovesciare la nostra mediocre classe politica".

GIUSEPPE BRIENZA: "La vicenda evocata da La Russa è particolarmente delicata anche perché legata alla pagina dolorosa della morte del Tenente colonnello Giovanni Alberto Bechi Luserna (1904-1943) che, nel tentativo di forzare un posto di blocco stradale costituito dal suo ex reparto paracadutisti, “ammutinato”, il “Nembo” appunto, venne colpito a morte da una raffica di mitragliatrice insieme ai due carabinieri della scorta. Alla memoria dell’ufficiale spoletano fu data poi, per questo episodio, la medaglia d’oro al valor militare con una motivazione unilaterale che riporta: “caduto in mezzo a coloro che aveva tentato di ricondurre sulla via del dovere e dell’onore”.
A oltre sessant’anni dalla “morte della patria” sarebbe però tempo, a mio avviso, di chiudere una volta per tutte il lunghissimo “secondo dopoguerra”, avviandoci in spirito di riconciliazione nazionale a soluzioni come quelle realizzate, ormai anni or sono, per altri episodi e militari caduti in quei tragici momenti della “guerra fratricida” 1943-45. Mi riferisco, per citare uno dei casi più recenti, alla serietà dimostrata verso i marò del Battaglione “Barbarigo” caduti per mano Alleata al momento dello sbarco di Anzio. Nel 1993, per alcuni di essi, fu realizzato nella vicina Nettuno un “Campo della memoria”, riconosciuto nel 2000 dal Ministero della Difesa, fra l’altro, con la sua ammissione all’OnorCaduti. Pochi anni dopo, il 16 giugno 2005, ai resti dei 7 caduti presenti nel “Campo” fin dall’inizio, si sono aggiunte le salme di altri 65 militari della “X MAS” uccisi ad Anzio. Le 65 piccole bare arrivarono a Nettuno dal Verano a bordo di 3 camion militari, ricevendo gli onori di un picchetto di soldati dell’Esercito e la benedizione di un Ordinario militare. I rappresentanti delle associazioni di partigiani (cfr. Un cimitero per la X Mas. I partigiani: li rispettiamo, in Corriere della sera, 16 giugno 2005) e gli storici più accreditati dell’antifascismo come Nicola Tranfaglia (cfr. Tranfaglia: è giusto avere memoria dei morti, in Corriere della sera, 16 giugno 2005), allora, approvarono tutto ciò, perché allora non riconoscere anche a quelli della “Nembo” l’onore delle armi (e della memoria)? Forse perché al governo ora ci sono rappresentanti della destra che, in un modo o nell’altro, sono avvertiti come ricollegati ai “vinti” ed alle loro memorie?
Quelle memorie rimandano invece all’Italia intera che, ancora oggi evidentemente, attende di rialzarsi forte delle sue radici ritornando ad essere un paese unito e protagonista del suo futuro".

ANDREA ROSSI: "innanzitutto il ministro, forse suggestionato dalla giovanile lettura dei ponderosi volumi di Giorgio Pisanò, poteva scegliere meglio il reparto a cui dedicare il commosso omaggio della propria coscienza. Il “Nembo”, infatti, era sul fronte di Anzio poiché proprio nei giorni successivi all’8 settembre ricordato a Porta San Paolo aveva prestato giuramento di fedeltà ad Adolf Hitler, fatto rivendicato orgogliosamente dal carismatico comandante del reparto, Mario Rizzatti, il quale in una lettera a Benito Mussolini sosteneva che la svastica era un simbolo più antico e glorioso dell’”etrusco fascio littorio”. Una gaffe rivelatrice di ulteriori e inconfessabili nostalgie? Non lo crediamo. In realtà i simboli ed i richiami espressi da La Russa sono quelli classici del cultura missina e di conseguenza fanno inevitabilmente parte del “patrimonio genetico” della generazione che oggi è ai vertici di Alleanza Nazionale. Ignorare questo che è un dato di fatto, e come tale secondo noi andrebbe preso, ci pare davvero una imperdonabile miopia. Almeno due generazioni di italiani si sono succedute nel paese, e occorre accettare l’idea che una parte consistente della nazione si rivede, in tutto o in parte, nelle posizioni espresse dal ministro, dal suo partito e dal governo italiano. Se gli intellettuali del nostro paese fossero meno provinciali, probabilmente si sarebbero accorti, buoni ultimi, che ovunque il dibattito fra storici mette e rimette in discussione l’interpretazione del passato. Dopo il crollo del muro di Berlino e la fine del comunismo, le granitiche certezze di una certa storiografia e memorialistica di impronta marxista si sono sciolte in buona parte del continente; dai paesi baltici, alla Slovenia, all’Ucraina, ci si interroga e si certa di guardare in modo critico agli eventi del novecento. L’equivoco per cui non tutti coloro che si opponevano ai nazisti volevano la democrazia appare superato dagli intellettuali di buona parte d’Europa, anche se residue sacche di studiosi che considerano nel fondo del loro cuore l’unione sovietica staliniana un baluardo di libertà e giustizia sociale si annidano ancora in diversi atenei dell’UE.
Occorrerà prima o poi che qualcuno avverta questi “ultimi giapponesi” della fine della stagione in cui, come diceva il cantautore Francesco de Gregori, la storia dava torto e dava ragione. La storia, come sosteneva sbeffeggiato oltre trent’anni fa Renzo de Felice, non esprime giudizi; semmai lo fanno gli storici, che come tutti gli esseri umani sbagliano, ci azzeccano e – se sono onesti – ammettono i propri errori, mettendosi sempre in discussione.

lunedì 25 agosto 2008

1908-2008: riflessioni nel centenario della nascita di Ferdinando Loffredo

In memoriam” di un intellettuale italiano controcorrente
Di Giuseppe Brienza*

Lo scorso anno è morto ad Albano Laziale, in provincia di Roma, l’economista e studioso sociale Ferdinando Enrico Loffredo, uno dei più interessanti e meno conosciuti ispiratori intellettuali della politica sociale e della famiglia del Regime fascista. Era nato a Roma il 14 giugno 1908. Chi volesse imbattersi in centinaia di citazioni può digitare il suo nome in un qualsiasi motore di ricerca Internet e si troverà davanti a siti “para” – “post” – e “filo” femministi che ne esecrano le teorie, additandolo a modello di sciovinismo fascista e di sessismo cattolico. In realtà Loffredo rappresenta una figura complessa di studioso del diritto socio-assistenziale italiano ed occidentale, oltre che di fervente militante politico (prima fascista, poi liberal-conservatore), attivo in un periodo, quello del fascismo-regime e della prima fase del miracolo economico italiano (dal 1933 funzionario dell’Istituto Nazionale Fascista di Previdenza Sociale, nel dopoguerra passò all’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, dove nel 1968 giunge alla qualifica apicale di Capo Servizio Affari Generali), in cui furono poste le basi di molte realtà ed istituzioni del contemporaneo stato sociale. Dopo essersi laureato giovanissimo (nel 1930), in Scienze economiche e commerciali all’Università di Roma “La Sapienza”, con una tesi sulla colonizzazione tedesca (relatore lo storico economico Gennaro Mondaini), durante l’ultimo periodo del Regime Loffredo collabora a testate tanto scientifico-divulgative, come “Difesa Sociale - Organo dell’Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale” (troviamo suoi saggi nelle annate dal 1938 al 1940), quanto a riviste di militanza come “Famiglia Fascista”, il bollettino ufficiale dell’Unione fascista famiglie numerose (1939-1940) e “La Difesa della Razza” (1939- 1940), fondata nel 1938 sotto gli auspici del Ministero della Cultura popolare e diretta fino alla cessazione delle sue pubblicazioni nel 1943 dal giornalista Telesio Interlandi. Alla seconda metà degli anni Trenta risalgono le sue pubblicazioni principali come Perequazione degli oneri familiari (Roma, USILA, 1936), Studi e attuazioni nel campo degli assegni familiari in Germania (Milano, Vita e Pensiero, 1936), Applicazioni australiane del principio degli assegni familiari (Roma, USILA, 1937), Aspetti demografici della riforma della previdenza sociale (Roma, USILA, 1939), L’eccesso assistenziale nella politica demografica (Roma, USILA 1939), La famiglia nell’economia della nazione (Bologna, Zanichelli, 1939), Reddito individuale e reddito familiare (Roma, USILA, 1939) e, soprattutto, l’opera più corposa ed interessante, Politica della famiglia, che reca una presentazione dell’allora gerarca e ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai (Milano, Bompiani, 1938). Prima di partire per il fronte greco-albanese nel 1940, lasciando a casa moglie e quattro figli, lo studioso romano si occupa anche della traduzione in italiano dei primi discorsi che Francisco Franco y Bahamonde aveva pronunciato alla fine della guerra civile spagnola, con un volume prefato da Galeazzo Ciano (Parole del Caudillo: discorsi, allocuzioni e proclami, messaggi, dichiarazioni alla stampa del generalissimo Franco dall’aprile al settembre 1939, Firenze, Le Monnier, 1940). Per stendere un profilo bio-bibliografico dell’intellettuale italiano nel mio saggio Fer­dinando Loffredo e lo sviluppo delle politiche familiari in Italia, pubblicato su “Annali Italiani - rivista dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Italiana”, (n. 3 - gennaio-giugno 2003, pp. 179-230, w
ww.identitanazionale.it) mi sono anche avvalso di un’intervista con Loffredo, che mi è stata concessa l’11 novembre 2002. Di seguito ne riporto il testo da lui successivamente rivisto.

* Giornalista pubblicista, dottore di ricerca nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Roma “La Sapienza


Dove è nato e quali studi universitari ha svolto?
Sono nato a Roma nel giugno 1908. Mi sono laureato in Scienze economiche e commerciali all’Università di Roma nel 1930, con una tesi sulla colonizzazione tedesca, relatore il professor Gennaro Mondaini, allora titolare della cattedra di Storia Economica. Scelsi quell’argomento perché ho sempre avuto una particolare simpatia ed interesse culturale per le “cose tedesche”.
Subito dopo riuscì a trovare un impiego?
Negli anni immediatamente successivi partecipai quasi contemporaneamente a due concorsi pubblici, uno bandito dall’INFPS, ed uno dal Ministero delle Corporazioni. Entrambi erano per funzionario, ed in entrambi risultai primo nella graduatoria. Optai comunque per quello che sarebbe poi diventato l’INPS perché, allora come in seguito, le retribuzioni di quell’ente pubblico equivalgono ed equivalevano quasi al doppio di quelle previste nei ministeri. Fui ivi assunto così nel 1933, e vi rimasi, con la sola interruzione della guerra (perché andai al fronte) e dell’immediato dopoguerra (perché, in quanto aderente alla RSI, fui – anche se solo per un certo periodo – epurato), fino al 1968, anno in cui fui pensionato con la qualifica di “Capo Servizio”.
Per partecipare ai due concorsi era necessaria l’iscrizione al P.N.F.?
No, non era richiesta iscrizione al partito.
Fu per caso “raccomandato” all’uno od all’altro dei concorsi?
No, non ebbi nessuna raccomandazione. Del resto mio padre Anacleto, di origine sarda (tutta la nostra famiglia paterna era nativa di Oristano - quella materna di Sassari -, trasferitasi a Roma all’inizio del 1900), era un semplice funzionario presso il Comune di Roma. Prima ancora era stato impiegato nella riscossione delle imposte daziarie (i “Regi Dazi”) e nel Comune di Napoli.
Di sua madre invece che mi può dire?
Mia madre, Riccarda Passeroni, era di una intelligenza e cultura finissima. Conseguì nel 1902 il titolo di studio presso l’Istituto Superiore di Magistero di Roma, avendo fra i suoi insegnanti anche Luigi Pirandello. I miei ebbero poi tre figli: Domenico, me e da ultimo Margherita, nata nel 1919 e tuttora vivente.
La sua famiglia, invece, di quanti componenti è composta?
Io e mia moglie Teresa abbiamo avuto quattro figli: Teresa del 1938, Gianfranco del 1940, Clara ed Eleonora concepiti invece al ritorno dalla guerra.
Appena terminata l’Università e vinti i concorsi di cui sopra, dovette partire per il servizio militare?
Si, effettuando il servizio di complemento nel Regio Esercito, Arma di Fanteria. Nel 1931 feci quindi la Scuola Allievi Ufficiali a Spoleto, nello stesso corso che frequentò Amintore Fanfani. Nella compagnia eravamo i più affiatati, anche perché eravamo i più istruiti, ed i nostri lettini, nella camerata, erano giustappunto affiancati.
Non sorgevano allora “dispute ideologiche” fra Lei ed il futuro esponente della “sinistra D.C.” Fanfani?
No, perché allora lui non era assolutamente “anti-fascista”. In quegli anni, si può dire, si era tutti fascisti senza nemmeno accorgersene. Anch’io come lui provenivo poi dall’associazionismo cattolico, avendo in gioventù frequentato i Boy scouts (ebbi persino l’onore di stringere la mano, nel 1924 a Copenaghen, al fondatore dello scoutismo Lord Baden-Powell).
Insomma stringeste una solida amicizia…
Di lui e del nostro periodo comune di servizio militare, le racconterò un aneddoto che non smise di suscitarci calorose risa per molti anni successivi. Il Fanfani, infatti, era molto colto e bravo nelle materie teoriche, ma nella “praticità” e nella “immediatezza” dei modi che veniva richiesta (soprattutto in quegli anni poi!) nell’ambito della vita militare non era affatto a suo agio! Non era poi per niente portato in quella che veniva chiamata l’“attitudine al comando”. Arrivati alla fine del corso Allievi Ufficiali, infatti, si giunse alla verifica finale che avrebbe dovuto dimostrare come ognuno noi avrebbe dovuto essere in grado di comandare una compagnia. Il colonnello Camillo Percalli, allora Comandante della scuola, giunse quindi, in alta uniforme e dopo una solenne cavalcata, dal sottotenente “in pectore” Fanfani. Così, dall’alto del suo cavallo, domandò marziale all’emozionato “professorino”, di esporre la strategia tattica immediatamente susseguente all’avvistamento di una compagnia di fanteria nemica. Il “poeta” Fanfani, del tutto fuori dall’ambiente e dall’atmosfera che il tempo ed il luogo esigevano, non trovò invece di meglio che esordire, nel toscano raffinato ed aulico che lo caratterizzava, con un “… il nemico vien sul dall’erta …”. Il colonnello, visibilmente irritato da cotanta “mollezza”, in mezzo a non poche imprecazioni, dette quindi immediatamente una rabbiosa frustata al suo cavallo, passando in fretta al successivo “esaminando”, considerando evidentemente il Fanfani del tutto “irrecuperabile”… Non parliamo poi di quando dovevamo fare il “salto mortale”. Non le dico le scene esilaranti. Per fargli superare anche questa prova, noi “recuperavamo” il Fanfani, al di là dell’ostacolo ed al nascosto, e lo giravamo su una coperta. Una volta congedati mantenemmo un’ottimo rapporto. Di reciproca stima culturale, peraltro.
Da questa vostra amicizia nacque quindi la sua collaborazione, che ebbe inizio nel 1933 e si prolungò fino al 1961, con il bimestrale dell’Università del Sacro Cuore di Milano,“Rivista internazionale di scienze sociali”, diretto fino al 1940 dallo stesso Fanfani (ed in seguito ampiamente da lui influenzato), che allora ivi teneva la cattedra di Storia economica?
Si, certamente. L’allora professore all’Università del Sacro Cuore, infatti, insegnava la materia che più coltivavo anch’io, vale a dire la storia economica, e m’inviava ogni anno da recensire una mezza dozzina di libri, quasi tutti non tradotti (soprattutto di lingua tedesca).
Quali considera gli economisti che maggiormente l’hanno influenzata?
Ha influito molto su di me il francese Paul Leroy-Beaulieu (1843-1916, professore all’Ecole libre des sciences politiques di Parigi, divulgatore delle teorie liberiste e individualiste e quindi anche coerentemente anti-socialista; sotto quest’ultimo profilo, si osservi soprattutto il suo Le collettivisme: examen critique du nouveau socialisme, del 1885). Penso, in primo luogo, al Traité d’economie politique, da lui pubblicato in due volumi fra il 1897-98 (fu contemporaneamente tradotto anche in italiano e, fra i due curatori del secondo tomo, figurava anche un allora giovanissimo Luigi Einaudi). Si trattava allora di un libro fondamentale per chi voleva avere un’idea chiara dei primi grandi economisti “classici”, da Adam Smith a Malthus. Ricordo di averlo letto, appena uscito in francese, e di averne fatto un riassunto di 100 pagine, ad uso personale e mai pubblicato che consultavo e rileggevo continuamente. Amavo sempre preferibilmente leggere in lingua originale, per il piacere di conoscere gli autori direttamente.
E di Colin Clark che mi può dire, visto che ne ha sempre recensito le opere, oltre ad aver contribuito a farlo conoscere in Italia con il suo saggio, che pubblicò nel 1954 sulla “Rivista di Politica economica”, intitolato Il progetto di Colin Clark per la riforma fiscale e dei servizi sociali in Gran Bretagna?
Le opere di Clark, per uno come me che si definisce liberale e liberista, sono sempre state interessantissime. Anche durante il fascismo, sono sempre stato contrario alle eccessive “partecipazioni statali”, nonché (e l’ho anche scritto) alle stesse politiche familiari di tipo assistenzialistico e statalistico. C’è un punto ad esempio in “Politica della Famiglia”, su cui venni non poco criticato, in cui “attaccavo”, a titolo meramente esemplare, l’iniziativa del Regime di distribuire i regali alla festa dell’Epifania. Sì, insomma, la cosiddetta “Befana Fascista”. Ma la befana, sostenevo, può essere “fascista” solo per i genitori, non certo per i figli! Ai bambini dovevano rimanere il babbo e la mamma a dare i doni e l’affetto tipico di una festività dai risvolti familiari e domestici come quella della “befana”. Di qui la mia costante tendenza a raccomandare di limitare il più possibile l’intervento dello Stato nella vita delle famiglie, nonché nei rapporti fra Stato e individuo. Tranne che nei casi indispensabili, ovviamente.
Ricordo poi le mie forti perplessità anche nei confronti dei concetti di Ugo Spirito, il quale in quegli anni vagheggiava di “corporazioni proprietarie”: concetto pericolosissimo! Ed infatti il fascismo, come la maggior parte di tutti gli altri regimi autoritari, partì come liberista, ma finì inevitabilmente con il finire dirigista ed interventista.
Come nacque la sua opera più nota Politica della famiglia del 1938 (con prefazione di Giuseppe Bottai)?
L’allora ministro per l’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, fu incaricato, fra la fine del 1936 e l’inizio del 1937, da parte della segreteria del P.N.F., di preparare una relazione sui problemi demografici del Paese per un imminente Gran Consiglio del Fascismo da convocarsi su tali tematiche, il quale avrebbe dovuto imprimere una svolta alle politiche fino allora adottate. Il segretario del ministro, il quale aveva già letto qualche mio articolo sull’argomento che gli era piaciuto (v. soprattutto quelli allora pubblicati su “Rivista internazionale di scienze sociali”, “Rivista di Politica Economica” e “Difesa Sociale”), mi consigliò a Bottai, per il quale scrissi prontamente due relazioni da presentare al Gran Consiglio. O meglio, una più lunga nella quale profusi moltissimo impegno, dalla quale appunto scaturì il libro che Lei ha citato, ed una più breve (l’unica che l’allora ministro avrebbe potuto meglio “digerire”), che fu quindi quella firmata e proposta da Bottai in quella riunione straordinaria, che poi si tenne il 3 marzo del 1937. Per quanto mi riguarda, avevo personalmente conosciuto Bottai prima di allora in una sola occasione. Quando, cioè, durante il suo breve periodo da presidente dell’INPS fra il 1933 ed il 1934, venne in visita all’Istituto un rappresentante tedesco, al fine di scambi culturali in tematiche relative alla previdenza sociale. Serviva allora un interprete ed io, conoscendo bene il tedesco, mi proposi da interprete fra il Bottai ed il funzionario straniero.
Da allora continuarono i suoi rapporti con Bottai?
Il ministro apprezzò molto la relazione e da allora ebbe grande fiducia e simpatia per me; tanto che ogni volta che Mussolini, per imitare Hitler, faceva passi avanti sulla via del razzismo, Bottai mi mandava a chiamare per “sfogarsi” con me. Nutrendo egli non poche perplessità su questo tipo di iniziative. Bottai in seguito continuò molto a stimarmi, sia come studioso, poiché dopo il libro ricevei l’incarico dell’insegnamento di Demografia presso la facoltà di Scienze politiche della Regia Università di Perugia (1938-1940), sia come “combattente”, scrivendomi egli, mentre ero sul fronte greco-albanese, lettere piene di entusiasmo. “Tua madre è fiera di te”, ricordo mi scrisse in una di queste (dopo aver sentito personalmente per telefono la mia genitrice), missive che ebbi poi il piacere di consegnare personalmente al figlio, ambasciatore Bruno Bottai, allorquando fu nominato Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri.
Come fu accolto “Politica della famiglia” dall’allora mondo politico e culturale?
La stampa cattolica, allora ridotta a poche testate, accolse con grande favore questo mio libro, a partire da “Civiltà cattolica”. Il gesuita padre Angelo Brucculeri lo recensì infatti subito con un articolo di fondo di ben 12 pagine. Ciò voleva dire che in quel momento il mondo cattolico e la Santa Sede riteneva molto utile questo lavoro per il bene dell’istituto familiare. Il pubblico, poi, tributò un notevole successo al mio studio, se solo si pensa che rimase a lungo esposto nelle principali librerie del centro di Roma e continuai per oltre quattro anni dalla sua uscita a percepire i diritti d’autore dalla Bompiani.
Nell’ambito del P.N.F., invece, furono condivise le sue tesi in tema di politiche familiari?
Beh, risponde a questa sua domanda l’episodio della mia convocazione diretta, nell’autunno del 1938, da parte di Mussolini in persona, al fine di essere sentito sulle prospettive di miglioramento e/o modifica dei provvedimenti fino allora assunti dal Regime. Quando ero ancora un modesto funzionario dell’INFPS, mi arrivò infatti, di punto in bianco, una telefonata da parte del segretario personale del Duce, il quale mi comunicò ch’egli mi voleva vedere subito. Gli contestai che non ero molto “presentabile” (indossavo una modesta giacchetta!), ma il segretario mi ribadì che dovevo farmi trovare immediatamente a Palazzo Venezia, perché Mussolini aveva saputo del libro e voleva parlarne direttamente con me. Mi precipitai dunque e, senza troppe formalità, fui ricevuto nella sala del Mappamondo, avendo una conversazione con il Duce di circa 45 minuti. Lui esordì contestandomi che io ero contrario (perché deresponsabilizzante e diseducativa) ad un politica demografica fondata principalmente sugli incentivi economici, mentre lui riteneva che l’aiuto economico “faceva effetto”. Io gli risposi che, secondo me, “non faceva effetto” ma la promozione della famiglia e della natalità dovevano basarsi essenzialmente su principi “spirituali” (nel senso di culturali), per educare alla onestà (nel senso di lotta all’aborto ed alla contraccezione), alla purezza (contrasto dei rapporti pre-matrimoniali ed alla concezione della sessualità esclusivamente come egoistico piacere). Mi diffusi ampiamente per dimostrare che, alla lunga, i sussidi economici sarebbero risultati secondari. La mia, del resto, era la posizione del magistero sociale della Chiesa. Mussolini mi ascoltò tutto il tempo con attenzione e, per quanto riguarda il fatto se l’avessi convinto o meno (dato che dal punto di vista della “rettificazione” delle politiche non ci fu il tempo necessario, a causa dell’ingresso dell’Italia nella Guerra), potrei citare la battuta con la quale mi congedò: “… Forse avete ragione, se a questi sposini moderni si assegna una somma di denaro, questi ci si comprano una cassa di preservativi e non fanno più figli…”
Avendo avuto modo di leggere Sue recensioni e citazioni bibliografiche da libri anche specialistici mai tradotti in italiano, mi sono reso conto che Lei conosce almeno 4 lingue straniere. Come le ha imparate?
Conosco il tedesco, per averlo “optato” (la mia fissazione per la cultura e la storia della Germania…) e studiato alle scuole superiori, per poi perfezionarlo privatamente. Nella seconda metà degli anni ’30, ebbi persino modo di scrivere su tematiche previdenziali e sociali su riviste specialistiche tedesche. L’inglese, l’ho studiato da autodidatta. Per quanto riguarda il francese, anch’esso iniziato a studiare durante la scuola dell’obbligo, ebbi modo di approfondirlo in un modo tutto particolare. Andavo infatti regolarmente, anche per non far spendere alla famiglia soldarelli preziosi per pagare gli insegnanti privati, ad ascoltare le prediche in madre-lingua, alla famosa chiesa romana di S. Luigi dei Francesi. Andavo così spesso che il predicatore cominciò a riconoscermi, iniziò a darmi confidenza e mi impadronii così bene dell’idioma che quando venne effettuata la prima verifica a scuola, l’esaminatore si meravigliò molto della mia “perizia” linguistica. Lo spagnolo l’ho studiato invece all’Università, e fra l’altro mi è riuscito molto facile di apprenderlo, dato anche il fatto che il dialetto della Sardegna meridionale (spesso parlato in famiglia) somiglia molto a tale idioma.
Proprio in relazione a questa sua buona conoscenza della lingua spagnola le si chiese di tradurre i primi discorsi tenuti da Francisco Franco, nel libro edito nel 1940 ed intitolato: Parole del Caudillo: discorsi, allocuzioni e proclami, messaggi, dichiarazioni alla stampa del generalissimo Franco dall’aprile al settembre 1939 (con prefazione di Galeazzo Ciano)?
L’allora presidente dell’INFPS Bruno Biagi era, allo stesso tempo, anche presidente della casa editrice Le Monnier (la quale editò il libro da Lei citato), e mi chiese lui di tradurre tutti i discorsi che Franco andava pronunciando via via che “riconquistava” la Spagna. Fu il primo (e rimane, a tutt’oggi, l’unico) libro con cui si rende conoscibile, in italiano, il pensiero ed i discorsi del Caudillo. Peraltro, quelli che ho tradotto nel 1940, non sono nemmeno di eccezionale valore culturale, date le circostanze in cui furono perlopiù pronunciati: conquistando le città, infatti, Franco era uso affacciarsi nei principali balconi e piazze dei vari capoluoghi e, con l’enfasi di cui era capace, si rivolgeva alle folle.
Subito dopo l’ingresso in guerra dell’Italia, Lei fu subito mobilitato?
Nel giugno del 1940 fui immediatamente richiamato e, con la mia Divisione Fanteria “Arezzo”, ci fecero restare dapprima a Monopoli e poi a Bari, per inviarci infine sul fronte greco-albanese. Nell’agosto 1940 mi trovavo quindi a Scutari, con il grado di Tenente dell’Esercito. In seguito giunse da Roma un dispaccio in cui, dato che risultava imminente l’attacco alla Grecia, si chiedeva agli ufficiali di complemento di scegliere se congedarsi od optare di rimanere in servizio, quest’ultima scelta equiparando il militare di leva a quello volontario. Optai per restare. Ciò al fine di, come venne trascritto anche nella motivazione alla medaglia di Bronzo al Valor Militare assegnatami “sul campo”, a Guru i Regjanit nel dicembre 1940, “partecipare attivamente ad operazioni di guerra”.
A quale incarico fu assegnato, una volta deciso di rimanere in servizio?
Fin dai primi tempi in cui mi trovavo a Scutari, il Comandante della Divisione, esaminando a fondo il mio fascicolo personale, nonostante sul luogo vi fossero ufficiali in servizio permanente, forse tenendo conto anche del mio curriculum di giornalista e scrittore, decise subito di nominarmi “Capo della Sezione Informazioni di Comando di Grande Unità”. In pratica, si trattava di essere responsabile ed organizzare tutta l’attività di spionaggio e controspionaggio.
Come andò invece a Guru i Regjanit, dove il 3 dicembre 1940 si meritò la Medaglia di Bronzo?
Io, il mio “bronzino”, me lo sono guadagnato abbondantemente. Sono infatti uno di quelli che, durante la seconda guerra mondiale, il fronte l’ha assaggiato, e non da lontano! Nell’ambito della mia Divisione sono stato peraltro l’unico decorato, anche perché sono stato l’unico messo nella concreta condizione di essere “esposto”. Dunque, nell’inverno del ‘40, sempre sul fronte greco-albanese, purtroppo, anziché avanzare ci fermammo. Il Comandante della mia Divisione si fermò quindi a 17 km dalla linea del fuoco. Nell’imperversare di un improvviso attacco nemico, mi dovetti allora portare in prima linea, per percorrere la “fronte” di un settore reggimentale al fine di rilevare la situazione avversaria. Il mitragliere greco cercò ripetutamente ma invano di colpirmi. Come venne poi trascritto al mio riguardo nella motivazione alla medaglia di Bronzo: “Coinvolto nel combattimento, con sana iniziativa riconduceva reparti al combattimento ripieganti sotto la soverchiante pressione avversaria, restava poi a fianco del comandante del settore fino al termine del combattimento, dando tutto l’ausilio della sua azione”. Rimasi poi per circa 5 mesi immerso nel fango, con il mio l’attendente Donato Lombardi e pochi altri, in una baita sulla linea del fronte greco. Eravamo tutti pieni di pidocchi. La Divisione andò poi a riposo, essendo sostituita da un’altra ma, scoppiata l’emergenza Jugoslavia, fu impiegata lì.
Fu sul fronte jugoslavo che entrò quindi in contatto con l’esercito tedesco, e si recò infine in Germania al suo seguito?
Ci “ricongiungemmo” con i tedeschi sulle rive del lago di Ocrida. Da allora, 1941, data la mia approfondita conoscenza della lingua, feci da interprete per le truppe della Wehrmacht, che seguii in seguito nel ripiegamento entro i confini germanici.
Cosa fece dunque in Germania dopo l’8 settembre?
Affiancai, dopo l’8 settembre, un capitano austriaco (allora, come noto, le Forze Armate dei due paesi di lingua e cultura tedesca erano unificate). Alcuni militari italiani lì sbandati, infatti, in quel particolare frangente, si unirono alla Wermacht in ritirata dai Balcani, ed io e l’austriaco comandavamo appunto insieme tale, come allora era stato denominato, “Comando di Presa ed Assistenza”.
Dopo la resa quale sorte le toccò nella Germania occupata dagli Alleati?
Una volta trasferitici in Germania, rimasi lì sino alla fine della guerra, allorquando fui “trattenuto” dal 414° Gruppo artiglieria di campagna americano. Mi trovavo infatti, nel ’45, in Baviera, dove le truppe statunitensi andavano rastrellando tutti gli sbandati. Gli americani ci comprendevano ben poco e, anche in questa circostanza, grazie alle mie conoscenze linguistiche, presi ad assistere due Ufficiali americani a districarsi in questo difficile compito. Stetti quindi, per ben 6 mesi e vestito da soldato americano, in una Batteria del loro esercito.
Quando tornò in Italia?
Tornai in patria il 31 dicembre 1945, dopo aver lavorato anche per un po’ di tempo nella segheria
del padre (uno dei più grossi industriali tedeschi), di un mio vecchio carissimo amico tedesco, conosciuto fin dal tempo degli scouts.
Tornò subito in contatto con Fanfani, una volta tornato in Italia?
Fanfani, appena saputo che ero ritornato, anche se ben sapeva che avevo ufficialmente aderito alla RSI, mi chiese di collaborare con la Democrazia Cristiana. Ed erano desiderosissimi di “sfruttarmi”, anche perché, come mi diceva, si aveva una grossa “carenza di intellettuali” nel partito, ed in particolare di specialisti e studiosi nel campo della previdenza e delle politiche sociali. Gli feci presente la mia scelta dopo l’8 settembre, ma lui mi disse di stare tranquillo, lasciando passare semplicemente qualche mese per poi trovare una collocazione in seno o “collateralmente” alla DC In ogni caso, nell’immediato (gennaio 1946), anche perché non avevo materialmente di che “sfamarmi”, Fanfani mi presentò all’Azione Cattolica, allora brillantemente guidata dal Luigi Gedda, per dirigere il “Fronte della Famiglia”. Si trattava di una delle tante “Opere” collegate all’AC, che aveva come specifica missione di opporsi al divorzio. Il pontefice Pio XII temeva infatti che, una volta caduto il fascismo (il quale, in qualche modo, si era reso protettore della famiglia), si sarebbero potute attivare spinte disgregatrici nella direzione di un potente indebolimento dell’istituto familiare. Il “Fronte”, particolarmente, doveva effettuare una campagna di formazione e sensibilizzazione culturale e sociale in funzione preventiva di presumibili future battaglie divorzistiche.
Quantò durò ed in cosa consistette la sua attività nel “Fronte della Famiglia”?
La Direzione centrale del “Fronte” era a Roma. Tale organismo era sostenuto dai due rami dell’AC (adulto maschile e femminile), e la sua attività consistette nella propaganda e formazione dei quadri dell’associazione nella direzione pro-famiglia ed anti-divorzio. La mia collaborazione durò per due anni dato che, una volta rifiutato definitivamente di entrare nella DC, mi trovai una collocazione lavorativa in seno a Confindustria.
Perché rifiutò di collaborare con la DC, ed invece accettò di sostenere l’allora Azione Cattolica?
Innanzitutto perché un conto è (era) l’Azione Cattolica, ed un conto era la DC In secondo luogo, perché conobbi Gedda, il quale, oltre ad essere stato nella Milizia fascista, era una persona dalle grandi capacità (peccato che in seguito non fu più utilizzato!) e, molti anni prima, mi aveva impressionato l’adunata che aveva organizzato a Roma, detta dei “berretti verdi”. Non volevo aderire alla DC perché mi sentivo molto diverso da quella gente. Era tutto un altro mondo quello che veniva al proscenio nel secondo dopoguerra, era gente che non aveva fatto la guerra. Gli allora dirigenti democristiani mi fecero tutta una serie d’offerte d’incarichi di responsabilità (e ben remunerati) in enti ed aziende del “sottogoverno” e del parastato, aspettando però (anche se la cosa non era esplicitamente richiesta) che io mi iscrivessi al partito. Ma io ero stato un militare del Regio esercito (votai peraltro per la monarchia nel ’46, sebbene avessi aderito alla Repubblica Sociale ma, tutti quanti noi di quella generazione, ci sentimmo di votare in questo senso al momento del referendum istituzionale), moltissimi dei miei “compagni di fede” erano morti. Mi sembrò di tradirli “mischiandomi” con tutta quella gente che non aveva fatto la guerra e che era espressione di tutto un altro mondo! Insomma, mi sentivo molto diverso da loro, io avevo il mio “bronzino”. Inoltre non volli avvicinarmi alla politica anche perché il riemergere della mia passata militanza fascista mi avrebbe fatto tribolare.
Per quale partito della “Prima repubblica” quindi lei simpatizzava?
Andavo volentieri a sentire i discorsi ed i comizi del MSI, e mi sentivo legato a questo partito.
Quindi, in un certo senso, rimase “coerente” a certe sue scelte politiche ed ideali, anche se questo le costò una sicura carriera e notevoli profitti personali…
Qualche volta, soprattutto pensando alla mia famiglia, mi capita di interrogarmi se non abbia fatto male dopo la guerra a conservare il mio “rigore”. Qualche volta mi pento di come mi comportai. Se mi fossi messo dietro a Fanfani sarei diventato un potente notabile democristiano…
A proposito di tribolazioni, lei fu anche soggetto a provvedimenti di “epurazione”?
Proprio al fine di non essere soggetto a tali provvedimenti, con la conseguente sequela di processi ed interrogatori, alla fine del 1945, diedi spontaneamente le dimissioni dall’allora divenuto INPS e nel 1947 (anno in cui si concluse quindi la mia collaborazione a tempo pieno con il “Fronte della Famiglia”; rapporti di tipo personale proseguirono anche dopo, ma non più sotto il profilo professionale), grazie anche all’intervento di un mio ex compagno di Università, entrai in Confindustria. Ero nel settore della politica economica, il mio capoufficio era un certo Galvani. Mi occupavo per l’associazione di fornire consulenza ed aiutare anche a livello burocratico le industrie, intervenendo a questo fine anche presso i ministeri economici.
Tornò in seguito nell’INPS?
Si, mi richiamarono nell’Istituto nel 1952 e lì rimasi sino al 1968, quando fui pensionato con la qualifica di Capo Servizio. Ad ogni modo, non dimentico la mia fruttuosa esperienza in Confindustria. E’ stato il migliore ambiente di lavoro che io abbia mai conosciuto. Fui valorizzato e tratto assai bene, con l’allora presidente Angelo Costa.
Ebbe compiti prevalentemente di studio, una volta riammesso nell’Istituto?
Direttore di “Previdenza Sociale”, il bimestrale organo ufficiale dell’INPS, era per statuto il presidente dell’Istituto. Fui capo redattore di tale testata dal 1957 al 1968 ma, in pratica, anche prima tale rivista la facevo quasi tutta io. Provai rammarico quando, nel 1990, seppi della sua soppressione. Durante questo periodo scrissi anche per la rivista dell’istituto infortuni (INAIL) e dell’INAM.
Come nacque il suo saggio del 1958, pubblicato su “Previdenza Sociale”, intitolato La sicurezza sociale nelle dichiarazioni del Pontefice Pio XII?
Era in quel periodo presidente dell’Istituto Angelo Corsi, che allora era socialdemocratico, ma persona di molto buon senso. Mi permise di andare a spulciare tutte le dichiarazioni e documenti di Pio XII in materia di sicurezza sociale, la cui concezione di una previdenza “personalizzata” andava a cozzare con gli indirizzi “collettivistici”socialisti. Nonostante fosse, per appartenenza partitica contro tali posizioni, Corsi fu molto contento dello studio, apprezzando in modo particolare che il Papa promuovesse una sicurezza sociale che non fosse meramente “cieca e livellatrice”, ma nascesse anche dalla “buona volontà” degli individui e delle famiglie.
Ho notato che anche in suoi saggi successivi, pubblicati sulla medesima Rivista (ad esempio Lo Stato assistenziale in una polemica tra cattolici inglesi del 1960, e L’enciclica Mater et Magistra del 1961) Lei risulta come attento cultore della Dottrina Sociale della Chiesa…
Ho sempre letto con attenzione le encicliche sociali e, del resto, fin dal mio primo ingresso all’INPS, ho sempre studiato attentamente tutti gli studi sulle tematiche sociali e familiari pubblicati di volta in volta su “Civiltà cattolica”. A questo proposito, ho sempre nutrito qualche perplessità nel definire l’insegnamento sociale della Chiesa una “dottrina”. A mio avviso si dovrebbe parlare, più propriamente, di un “magistero”.
Dopo il pensionamento nel 1968 continuò a lavorare a livello intellettuale?
Si, fornii consulenza a Confindustria per 3-4 anni a proposito delle questioni previdenziali, e gli fui utile in particolare per assistere le rappresentanze straniere di industriali, illustrando a tali delegazioni l’assetto previdenziale italiano.
Come nacque il suo ultimo libro La Protezione sociale del cittadino del 1962?
Fu l’allora direttore generale dell’INPS che mi chiese di preparare un “manualetto” da distribuire a tutti gli operai di un settore privato industriale.

martedì 10 giugno 2008

Giusto e sbagliato, torti e ragioni

Violenza fascista, violenza partigiana?
M. Storchi, Il sangue dei vincitori, Roma, Aliberti, 2008.

I volumi di Gianpaolo Pansa, anche a detta dei più caustici detrattori, hanno avuto il merito di mettere al centro del pubblico dibattito il problema della violenza postbellica nel nostro paese. Massimo Storchi, che ha a lungo studiato l’argomento nell’ambito della provincia reggiana, nel suo ultimo volume rende – provocatoriamente – tributo al titolo più famoso fra quelli del giornalista piemontese, ossia il notissimo Il sangue dei vinti. Il volume dello studioso emiliano è una approfondita e puntuale indagine sulle vicende belliche e i successivi processi ad alcuni fra i peggiori desperados che imperversarono a Reggio Emilia durante la RSI: il capitano della GNR Cesare Pilati, il federale fascista Guglielmo Ferri, il maggiore della GNR Attilio Tesei e l’avventuriero-poliziotto fascista Gioacchino Pelliccia.
Come in altri studi simili, ci troviamo di fronte a squallide vicende umane, poco o nulla rischiarate dalla fede politica dei tragici protagonisti, personaggi che al giorno d’oggi avrebbero fatto la felicità dei tanti criminologi che animano i talk show televisivi. Pochi fra questi uomini pagarono subito e “in solido” le loro malefatte. Chi riuscì a superare i giorni del furore, rientrò senza troppi scossoni alla vita civile, sino alla fine dei propri giorni; fu un copione generalizzato in tutto il centro-nord del paese, in un’Italia che, a eccezione di chi aveva subito lutti e violenze, voleva dimenticare, e anche in fretta. In questo Reggio Emilia non fu diversa da altre realtà della nazione.
Di diverso, e allo stesso tempo in comune con il resto dell’Emilia, ci fu lo strascico di violenze politiche che si protrasse per mesi dopo il termine delle ostilità, il quale provocò decine di uccisioni a freddo compiute da ex partigiani ai danni sì di ex fascisti impuniti, ma anche di dirigenti d’azienda, proprietari terrieri, giornalisti e sacerdoti.
E’ su questo che divergiamo dalla tesi presente nel volume, che lega la rabbia per la giustizia lenta (o assente) dello Stato alla giustizia sommaria e di popolo dei vari pistoleros del comunismo reggiano. E ancor più divergiamo dall’introduzione dello studio, quasi giustificatoria, redatta da Mimmo Franzinelli: come si faccia a sostenere che lo scempio del cadavere dell’ex carceriere fascista Giuseppe Sidoli “avesse una sua ragion d’essere”, ci pare davvero una inutile iperbole. Così come il problema dei “fatti separati dalle opinioni” di cui Storchi parla a inizio del volume, dovrebbe condurre, oltre alle critiche al sensazionalismo della pubblicistica neofascista, anche a una pacata riflessione su cinquant’anni di storiografia resistenziale, che sovente ha prima interpretato e poi ricostruito i fatti (Renzo de Felice lo diceva, irriso e inascoltato, trentacinque anni fa …). Oppure li ha “sbianchettati” perché scomodi.
Se un dopoguerra più civile nel Reggiano come nel Modenese o altrove nel “triangolo rosso”, potesse essere possibile, lo dicono a parer nostro le stesse statistiche riportate da Storchi: Lombardia e Veneto, che avevano ricevuto sfregi orrendi durante l’occupazione tedesca, conobbero strascichi luttuosi più ridotti e vendette assai più isolate di quelle emiliane. In alcune zone, come la Bergamasca, il Trentino, il Vicentino e il Bellunese, già nell’estate del 1945 la violenza si esaurì completamente, ed episodi brutali come l’uccisione dei sacerdoti (tragico stigma emiliano) furono del tutto assenti.
I partigiani delle Fiamme verdi erano meno antifascisti dei garibaldini reggiani? O forse erano solo meno imbevuti di ideologia? E poi: come criticare il disarmo immediato dei partigiani effettuato dalle truppe alleate, a fronte delle centinaia di morti ammazzati a guerra finita in tutta la regione?
E’ su questo che bisognerebbe iniziare nuove riflessioni che, purtroppo, ancora mancano nella storiografia di quel tormentato periodo.

La marcia dei dannati
P. Pavesi, La colonna Morsero, (edizione aggiornata), Maro, Pavia, 2007.

Non conoscevamo questo interessante lavoro di Pierangelo Pavesi, uscito nel 2002 e ripubblicato lo scorso anno in versione rivista e ampliata. Lo studio tratta la vicenda della cosiddetta colonna Morsero, dal nome di Michele Morsero, capo della provincia di Vercelli: una delle tante “marce dei dannati di Salò” che si svolsero nei giorni della fine della guerra, nel tentativo – vano – di raggiungere Mussolini e il suo governo, e che conobbero esiti diversi a seconda delle capacità dei capi e della compattezza dei gregari. Nel caso affrontato dal volume di Pavesi, il finale fu tragico, e dopo la resa decine di militi furono uccisi a sangue freddo dai partigiani a cui avevano ceduto le armi.
La narrazione è ricostruita prevalentemente tramite i ricordi e le testimonianze di reduci fascisti, ed è inutile sottolineare quanto risulti sbilanciata verso punti di vista apertamente nostalgici; chi scrive ha conosciuto in passato numerosi dei testimoni citati nel volume, ed è sempre rimasto colpito dall’incapacità di persone, anche colte e sensibili, di tentare una qualsivoglia rielaborazione critica delle proprie esperienze.
Nel contempo, questa cristallizzazione della memoria ha fatto sì che lo svolgersi degli eventi sia riportato, nella sua spietata drammaticità, come una sorta di present continuous; le ausiliarie e i militi che avevano all’epoca sedici/diciassette anni, parlano della vicenda che vissero a cavallo fra l’aprile e il maggio 1945 come se fosse avvenuta nei giorni precedenti all’intervista di Pavesi. Ciò non può non condurre ad una forma di umana pietà nei confronti di uomini e donne che a causa delle loro convinzioni ideologiche hanno vissuto i successivi anni della propria vita come italiani all’estero, in una nazione animata da valori opposti a quelli con cui essi erano stati educati.
I fatti, come detto, ricalcano per sommi capi storie simili viste in ogni dove nei giorni dell’agonia della RSI: assenza di direttive superiori perché i capi militari si sono eclissati, iniziative contrastanti dei comandanti militari locali, grande confusione nei quadri e fra i militi, che pur dimostrano, nella disperazione della fine, una inattesa compattezza, tanto che le forze di Salò che escono da Vercelli il 26 aprile 1945 per dirigersi (fuori ogni tempo massimo) su Como, ammontano a oltre 2000 uomini, comprensivi di due fra i meglio addestrati e armati reparti della GNR, i battaglioni “Pontida” e “Montebello”.
Con il senno di poi l’unica cosa sensata che questa congerie di formazioni avrebbe dovuto fare, era attendere in buon ordine gli americani, cosa che avviene negli stessi giorni a Ivrea alla colonna italotedesca del generale Hans Schlemmer. Invece Morsero e i suoi vagano nella pianura fra Vercelli e Novara, che è ormai in mano delle forti formazioni partigiane provenienti dalla Valsesia, senza piani precisi, tanto da fermarsi nel paese di Castellazzo Novarese, dove si arrendono – invero senza troppa gloria – ad un gruppo di insorti che probabilmente, in altri momenti, sarebbe stato affrontato senza troppi riguardi dalle camicie nere.
Pur tra le reticenze dei testimoni, emergono nei racconti tutte le lacune dei capi, diversi dei quali si eclissarono al momento del redde rationem (qualcuno anche prima) tanto che, in definitiva, i “pesci grossi” in mano partigiana furono soltanto il prefetto e il federale di Vercelli (Michele Morsero e Gaspare Bertozzi), il primo dei quali sarà fucilato poco dopo nel capoluogo piemontese. Gli altri subiranno la consueta trafila di altri prigionieri fascisti in mano partigiana; chi riuscirà a superare le vendette dei primi giorni, culminate con il noto episodio delle fucilazioni avvenute presso l’ospedale psichiatrico di Greggio, passerà attraverso i campi di Coltano e Laterina, e tornerà in breve tempo alla vita civile.
I fatti raccolti da Pavesi dimostrano, una volta di più, come una volta ceduto lo schermo offerto dalle forze armate tedesche, la RSI non fu capace ne’ di difendersi, ne’ di chiudere dignitosamente la propria esistenza. La fede cieca dei giovani volontari poco poteva nei confronti di formazioni partigiane agguerrite e ben equipaggiate, ad un paese in rivolta e, soprattutto alle preponderanti forze angloamericane. Resta il sacrificio di molti di quei giovani di allora, degno peraltro di causa migliore di quella mussoliniana.

Le altre foibe
J. Corsellis, M. Ferrar, Slovenia 1945, Gorizia, LEG, 2008

Questo volume, meritoriamente edito, come altri simili, grazie alla sensibilità editoriale della Libreria editrice goriziana, racconta cose che supponevamo e solo parzialmente conoscevamo, ma non nelle dimensioni narrate dagli autori del lavoro: lo sterminio di migliaia di sloveni collaborazionisti, militari e civili, da parte dei partigiani dell’esercito di liberazione jugoslavo a cui erano stati consegnati, senza particolari remore, dalle forze della VIII armata britannica a cui si erano arresi nel maggio 1945, in Austria. Lo studio, nel suo seguito, narra, tramite numerose testimonianze, l’odissea dei profughi e il loro destino di sradicati, obbligati a rifarsi una vita in terre lontane e non sempre accoglienti, e il ritorno in patria di molti di essi, negli anni ’90, esperienza talvolta non meno traumatizzante delle precedenti.
Studiosi titolati e politicamente orientati, di fronte alle pagine redatte da due storici non professionisti, talvolta lacunose e sin troppo “partecipate”, potrebbero obiettare che si tratta di pubblicistica di scarso valore scientifico, dedicata a vicende patrimonio di quell’emigrazione anticomunista slovena, croata, ucraina o baltica, indegna di qualsivoglia attenzione se non per il fatto di aver convogliato all’estero, specie in Sudamerica, ogni sorta di criminali di guerra tramite inconfessabili complicità vaticane.
Altri ricercatori, soprattutto gli specialisti dell’antifascismo militante, probabilmente nel leggere le testimonianze delle esecuzioni nelle foibe di Kocevje avranno lo stesso tipo di atteggiamento che tuttora anima le loro descrizioni delle esecuzioni di massa di italiani nell’Istria occupata (liberata?) dai titini: episodi marginali, ingigantiti per propaganda anti-comunista, che comunque riguardarono minoranze di collaboratori che avevano affiancato volontariamente i nazisti fino alla fine della guerra, e che quindi pagavano le loro malefatte. Insomma, come con un certo verace cinismo sostenevano a microfoni spenti alcuni ex partigiani da noi intervistati anni addietro, “...sempre pochi...”.
Infine, seguendo la risacca dell’anticlericalismo di ritorno, mai così arzillo e pimpante come in questi ultimi tempi, ci sarà chi sottolineerà quanto la posizione della chiesa slovena sia stata determinante a orientare numerosi cattolici verso la collaborazione militare con gli occupanti nazisti fra il 1943 ed il 1945; e siccome, usando una limpida definizione di Gaetanò Arfè, il presule croato Alojzije Stepinac, beato della chiesa cattolica, era “un vescovo ustascia”, i parallelismi con il comportamento del clero nella vicina Slovenia diverranno una ulteriore atto di accusa nel pluridecennale e ininterrotto processo postumo a carico di Pio XII; un singolare procedimento volto a dimostrare, a parer nostro, soprattutto alcune verità ideologiche.
Per chi invece, come noi, ritiene che qualche dubbio è sempre meglio delle “granitiche certezze”, e che non si fa un buon servizio alla storia trattandola come un cespuglio, potando tutto quanto di contraddittorio, asimmetrico e diseguale c’è in essa, Slovenia 1945 è un libro da leggere assolutamente, con rispetto pari almeno al dolore che emerge in ogni pagina del volume.

lunedì 14 aprile 2008

Fra guerra e dopoguerra

Premesse lunghe, indagini brevi
G. Crainz, L’ombra della guerra, Roma, Donzelli, 2007.

Anche Guido Crainz ha deciso di dedicare alcune (non molto originali) riflessioni sul tema delle uccisioni arbitrarie avvenute dopo la liberazione nel nord Italia. Peccato che lo studioso, similmente a diversi suoi predecessori (su tutti Mirco Dondi e Nazario Sauro Onofri) prima di affrontare quella che oggettivamente fu la pagina nera della Resistenza italiana, senta la necessità di partire ab ovo, perdendosi per oltre 80 delle 150 pagine del volume in premesse, contestualizzazioni, analisi e appunti. Per Crainz, come per gli altri sopra citati ricercatori, pare impossibile, a più di sessant’anni dai fatti in questione, affrontare di petto i diecimila morti ammazzati del 1945 senza tutti i possibili distinguo, tanto da rendere inspiegabile persino il sottotitolo (Il 1945, l’Italia) visto che dell’ultimo anno di guerra si parla assai poco.
In se L’ombra della guerra poco aggiunge a quanto già si sapeva, tanto è vero che per quanto riguarda le cifre, vengono riportate quelle – fino ad oggi al di sopra di qualsiasi contestazione – provenienti dagli studi di Onofri. Poco di nuovo anche riguardo al presunto rapporto “causa-effetto” fra eccidi fascisti e omicidi postbellici. Niente, o quasi, sugli eccessi che caratterizzarono molti dei fatti di sangue riportati nel volume; si sorvola poi sul fatto che non tutti i partigiani avessero il furor ideologicus di fare pulizia a tutti i costi (l’esperienza delle “Fiamme verdi” nel bresciano o della “Osoppo” in Carnia è assente). Bisogna arrivare oltre pagina 100 per sapere che rimasero vittime innocenti della furia totalitaria diversi sacerdoti e molti attivisti della Democrazia cristiana, specie in Emilia.
La domanda in conclusione al volume, ossia se l’utopia di un “cambiamento sostanziale” rispetto all’Italia fascista fosse fondata o no, meriterebbe una approfondita indagine sulla parola “cambiamento”. In estrema sintesi, se Crainz intende il definitivo passaggio dalla dittatura alla democrazia, le elezioni del 18 aprile 1948 sono la risposta ai suoi dubbi. Se lo studioso vuole dire altro, rimpiangendo scenari di “democrazia progressiva”, in tal caso, davvero, non siamo disponibili a seguirlo per tale impervio sentiero.

Alpini a Salò
C. Bertolotti, Storia del battaglione Bassano, Bologna, Lo Scarabeo, 2007.

Il battaglione alpini “Bassano” faceva parte della divisione “Monterosa” dell’esercito di Salò, e nel 1944 fu schierato prima in Liguria e successivamente sulle Alpi piemontesi, nelle valli Varaita e Maira, dove si arrese ai partigiani alla fine dell’aprile 1945.
Claudio Bertolotti, giovane ufficiale degli alpini, ripercorre la storia non lieta di questo reparto, dalla costituzione, all’addestramento in Germania, fino alla guerra contro i francesi gaullisti e contro i partigiani di “Giustizia e Libertà”. Lo studio, assai approfondito dal punto di vista militare, ha un tono improntato alla pietas (e a parer nostro non potrebbe essere altrimenti) e un apprezzabile equilibrio nel narrare la vicenda di un reparto i cui appartenenti cercarono di sentirsi prima di tutto soldati; molti di essi si accorsero poi, purtroppo, di essere “soldati dalla parte sbagliata”, fatto sul quale Bertolotti cerca di sorvolare, ma che emerge a più riprese nelle pagine della ricerca.
L’”alpinità”, il sentirsi parte di una comunità dalle solide tradizioni militari, fu l’unico scudo a separare i militi dalla catastrofica realtà di quei giorni; assai più dell’inutile propaganda salotina. Anche questa illusione, però, servirà poco ai “bassanini”, quasi tutti giovani delle leve 1924-26, per nascondere la triste quotidianità di rastrellamenti, rappresaglie e fucilazioni.
Non occorre però trascurare alcuni fatti, in genere trascurati dalla storiografia resistenziale, che invece appaiono a noi degni di indagini più approfondite. Le diserzioni che ridussero il battaglione dai circa mille uomini della forza iniziale agli ottocento che si arresero agli insorti dopo il 25 aprile, avvennero in stragrande maggioranza subito dopo il rientro in Italia del reparto, durante l’estate del 1944 (fatto che avevamo sottolineato nella nostra tesi di dottorato sulle forze armate della RSI, ormai dieci anni or sono). Da quel momento in avanti gli abbandoni furono praticamente nulli, a dimostrazione che la forza dei legami di reparto (l’essere alpini) fu più forte di qualsiasi altra valutazione dei singoli, comprese eventuali, e assai rade, manifestazioni di fede fascista.
Altro dettaglio da non sottovalutare riguarda l’utilizzo operativo dell’unità, che presenta significative continuità col passato nonostante le vicende armistiziali. Nella guerra di Grecia e nell’occupazione balcanica, le truppe alpine si fecero la fama di solidi difensori e durissimi rastrellatori (si vedano al riguardo le precise analisi di Giorgio Rochat nel suo Le guerre italiane 1936-43, Torino, Einaudi, 2005): sono caratteristiche queste che si riscontrano senza particolari differenze anche per gli alpini della RSI. Tra l’altro gli ufficiali e diversi veterani sottufficiali provenivano dal fronte jugoslavo, compreso il comandante del raggruppamento di cui il “Bassano” faceva parte, il tenente colonnello Armando Farinacci, fratello del gerarca cremonese Roberto, e già comandante del battaglione alpino “Esille” in Montenegro.
Nel finale, a ulteriore segno di inequivocabili continuità fra l’esercito regio e quello repubblichino, è possibile notare, come al momento dell’armistizio, soprattutto la codardia di alcuni comandanti e l’ingenua coerenza di parecchi sottoposti. Il responsabile del battaglione che per salvare la vita patteggia la resa del reparto e denuncia gli elementi implicati nelle operazioni antipartigiane non è migliore dei tanti ufficiali che nel settembre 1943 cercavano un abito civile e un mezzo qualsiasi per giungere a casa, mentre i soldatini in grigioverde finivano sui vagoni per la Germania. Alcuni di questi non pregevoli elementi con i galloni sulle maniche terminarono la loro carriera nell’esercito della repubblica italiana.
Ci sentiamo quindi vicini alla pietas del bravo Bertolotti, per chi, come il fucilatore Adriano Adami, concluse la sua vita violenta davanti al plotone d’esecuzione partigiano, e per i tanti che pagarono in solido la propria scelta sbagliata, senza possibilità di remissione.

Ufficiale e gentiluomo
E. Beraudo di Pralormo, Il mestiere delle armi, Savigliano, Artistica Savigliano, 2007 (2 voll.).

Emanuele Beraudo di Pralormo, i cui diari sono pubblicati a cura di Nicola Labanca, redattore anche di una pregevole introduzione, raccolgono le annotazioni quasi quotidiane di un ufficiale che attraversò tutte le campagne militari italiane dal 1939 fino al 1945, concludendo la propria esperienza nelle forze armate nel 1950.
Il disincanto, l’attaccamento all’onore delle armi, la scarsa ideologizzazione e una visione di fatti e personaggi concreta e non faziosa, sono i tratti distintivi del generale che fu comandante di divisione in Africa orientale, poi prigioniero degli inglesi in India, e successivamente fra gli artefici della ricostituzione dell’esercito italiano al sud, dopo l’armistizio. Le note di Beraudo sono scarne ma efficaci, e non potendo approfondire la vasta mole di commenti, riflessioni e analisi presenti nei due volumi, ci soffermiamo su quelle che, per i temi riportati nelle recensioni dianzi riportate, ci paiono di maggiore interesse in questa sede.
Incaricato di ricostituire il comando militare territoriale del regio esercito nella Torino incandescente del maggio 1945, incontra il suo parigrado Alessandro Trabucchi, fra i protagonisti della Resistenza piemontese, che la prosa pacata del Pralormo dipinge a tinte affatto diverse dall’agiografia partigiana: l’ufficiale gli appare esaltato “sotto l’ubriacatura del successo riportato”; la spiegazione, tanto semplice e lapidaria quanto sostanzialmente assente nelle analisi politically correct è che Trabucchi “era stato imprigionato dai tedeschi a San Vittore, è scampato alla morte e ora si vendica” (p. 442) e de hoc satis.
Dopo la comprensione per il collega, Beraudo non può però esimersi dal commentare il risultato della sete di rivincita, la quale, evidentemente, non gli appare quella salubre manifestazione di giustizia popolare di cui alcuni storici continuano ancora oggi a parlare: “Ieri il Trabucchi ha ammesso che qui a Torino si sono fucilati 6000 fascisti (in realtà meno di metà secondo le stime di Onofri, n.d.r.). Questi eccidi sono obbrobriosi e indegni di popolo civile. La vita umana da questa gente che ha perduto la testa non viene più calcolata nulla. Si ammazza un uomo come si tira il collo ad un pollo, con la stessa indifferenza” (p.443).
Nonostante i sentimenti monarchici, Beraudo accetta – dolorosamente, ma senza disubbidienze – i risultati del referendum del 2 giugno, lamentandosi semmai della scarsa considerazione per l’esercito come istituzione, da parte dei politici di allora.
Ultima e non lieve incombenza che il protagonista del diario ebbe dalle forze armate del nostro paese, fu quella di presiedere il tribunale militare chiamato a processare maresciallo Rodolfo Graziani, dopo che le autorità civili si erano dichiarate incompetenti a giudicare l’ex capo dell’esercito di Salò. Tutta l’ultima parte delle memorie del generale piemontese e la ricca appendice del volume sono dedicate a questo difficile compito, che fu comunque svolto con la consueta pacatezza, nonostante Beraudo fosse stato “strattonato” da ogni parte nel corso del dibattimento. Le critiche alla sentenza, il non aver accettato compromessi al ribasso o al rialzo da parte della politica, gli costarono la carriera ed il posto, conducendolo ad un anticipato pensionamento.
Il mestiere delle armi è un’opera originale e stimolante, specie per chi ha come interesse prevalente dei propri studi la storia militare del nostro paese durante e dopo la 2° guerra mondiale, segnalandosi per la completezza delle annotazioni come anche per la ricca raccolta iconografica, composta quasi integralmente da fotografie scattate dallo stesso Emanuele Beraudo nel corso della sua lunga carriera militare.

L’importanza delle didascalie
M. Franzinelli, RSI, Milano, Mondadori, 2007.

Di Franzinelli e di questa opera, che raccoglie decine di fotografie e manifesti inediti del periodo 1943-45, vorremmo dire tutto il bene possibile, soprattutto per alcune preziose immagini che rendono bene la plumbea e ferale atmosfera in cui si muovevano gli aderenti, politici e militari, alla repubblica di Mussolini.
Purtroppo, oltrepassata la premessa, peraltro caratterizzata da interessanti spunti di analisi sull’immagine ufficiale e quella “privata” di Salò, il commento alle immagini ci apparso di qualità inspiegabilmente bassa, con frequenti errori e imprecisioni.
Ne segnaliamo qualcuno; a p. 78, si vede Rodolfo Graziani a Novara il giorno del giuramento dell’esercito di Salò, avvenimento accaduto non nel gennaio 1944, come riportato, ma il 9 febbraio 1944, anniversario di fondazione della repubblica romana. A p. 80, uno sconosciuto tenente colonnello della GNR al fianco di Carlo Borsani viene indicato come Niccolò Nicchiarelli, che all’epoca era generale. Il battaglione “Barbarigo” della X Mas, ad Anzio non era agli ordini della 175° ma della 715° divisione di fanteria tedesca (p. 86); dubitiamo che gli adolescenti immortalati in basso a p. 97 facessero parte della compagnia “Bir el Gobi”, che perlopiù era composta da reduci del reggimento “Giovani fascisti”; a p. 101 non intravediamo alcuna donna che assomigli a Piera Gatteschi, la comandante del servizio ausiliario femminile, come invece vorrebbe la didascalia; davvero madornali le imprecisioni nella sequenza di pp. 118-119. Gli uomini indicati come SS al comando dell’ufficiale Willi Lembke sono invece tutti avieri della Flak, o forse componenti del “Sicherungsregiment” della Luftwaffe, come si evince dalla divisa e dalle mostrine. Si è persa quindi una occasione per fare luce sui fatti di sangue di cui Franzinelli parla nel commento alle fotografie. A p. 124 si afferma che il generale Giovanni Esposito apparteneva alla GNR quando invece era il comandante di piazza dell’esercito della RSI a Trieste: lo stesso è immortalato a p. 131, in una foto erroneamente ambientata a Pavia, e in cui l’ufficiale è scambiato per il generale Amilcare Farina, comandante della divisione “San Marco”; a p. 142 non ci sono bombardieri angloamericani, bensì dei “Baltimore”, bimotori statunitensi della regia aeronautica operante al sud; a p. 152 a fianco di Mussolini e Pavolini non c’è Rodolfo Graziani, ma un ignoto generale dell’esercito di Salò, come si evince anche in questo caso da distintivi e mostreggiatura.
Purtroppo ci pare di poter dire che la tanto sottovalutata storia militare mai come in questo caso sarebbe stata un decisivo supporto per poter definire in modo corretto situazioni e personaggi sui quali ancora resta molto da dire e da ricercare
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mercoledì 20 febbraio 2008

“Piazza Igino Ghisellini – Federale” (o del passato che non passa)

Orientamenti storici dedica le sue riflessioni alla vicenda della decisione presa dal comune di Cento (FE) di intitolare una via o una piazza a Igino Ghisellini, segretario del partito fascista repubblicano ferrarese.

Biografie e toponomastica
Igino Ghisellini era un ufficiale pluridecorato e uno stimato veterinario, morto cinquantenne in circostanze oscure nel novembre 1943. Il comune di Cento, ricca e laboriosa città del Ferrarese, ha deciso su proposta di un consigliere di intitolare una via o una piazza a questo personaggio, cosa che avverrà probabilmente nella popolosa frazione di Casumaro, dove Ghisellini risiedeva.
Un problema di toponomastica cittadina? No una querelle prima locale, poi provinciale e alla fine cassa di risonanza per polemiche a cavallo fra la politica, la storia e un passato che non passa, sul quale si riverbera uno ieri che pare “ieri” ma dal quale ci separano invece sessantacinque anni.
Già, perché Ghisellini non era un ufficiale “qualsiasi”, ma un seniore (maggiore) della milizia, già comandante del 75° battaglione camicie nere in Slovenia e Croazia fra il 1941 ed il 1943, che come altri reparti della MVSN si era distinto in rastrellamenti e rappresaglie. E prima ancora era stato ardito nella grande guerra, tra i fondatori del fascio di Cento, e volontario in Africa Orientale. Infine, e qui è il nodo, Ghisellini ha chiuso la sua vita, ammazzato quasi certamente dai suoi camerati, il 13 novembre 1943, mentre ricopriva da cinquanta giorni la carica di federale del Partito fascista repubblicano di Ferrara; peraltro fino a quel momento il veterinario contese si era sostanzialmente disinteressato di politica, concentrandosi unicamente sul suo lavoro e sulla carriera militare.
Fermo restando che, con tutta evidenza, si tratta di un infortunio politico della giunta comunale di Cento, dovuto probabilmente a ripicche stracittadine, non si capisce davvero perché il sindaco si sia impelagato in una questione che di certo non avrebbe portato lustro alla città del Guercino.
E qui chiudiamo la parentesi sulle valutazioni delle scelte politiche; riteniamo che chi si occupa di storia non dovrebbe, secondo il nostro modesto parere, esprimere pareri su cosa fanno o non fanno le amministrazioni locali. Se la democrazia ha un senso, la giunta centese è rappresentativa della maggioranza dei cittadini, e da questi delegata a decidere e scegliere. Forse per togliere ogni dubbio, sarebbe bene chiedere agli abitanti di Casumaro che ne pensano, visto che saranno probabilmente loro ad ospitare l’ingombrante insegna; ma se essi non avessero rilievi, davvero non si capisce perché non dovrebbero avere la loro “piazza Ghisellini”, con annessi oneri ed onori.
In realtà sulla querelle sono intervenuti tutti fuorché i casumaresi: associazioni partigiane, politici locali e nazionali, storici dilettanti e di professione; persino sindaci di altri comuni che hanno portato la loro solidarietà ai cittadini centesi, come se questi ultimi fossero governati da un podestà di nomina prefettizia.
Un esempio su tutti di questa poco comprensibile sovrapposizione fra ruoli, sono state le affermazioni della direttrice dell’Istituto di storia contemporanea di Ferrara; questa, intervenuta nel merito, ha infatti sostenuto in modo lapidario: “E' anticostituzionale. la cosa grave è che Ghisellini ricoprì incarichi dirigenziali nella Rsi, la stessa che si ispirava al fascismo ed era alleata del nazismo. Abbiamo il dovere di rispettare la Costituzione. Questa intitolazione è una cosa grave. Ghisellini sarà stato pure un bravo padre di famiglia, ma faceva parte della Rsi. E questo, politicamente, basta”.
Fermo restando che non si capisce cosa c’entri la costituzione con la toponomastica, e che ci pare grottesca l’idea che la corte costituzionale si dovrebbe occupare della piazza di Casumaro, ci chiediamo: la direttrice parlava a nome proprio? Dell’Istituto? Come consigliere comunale di Ferrara? O le tre cose assieme?
E infine verrebbe da dire, chi di toponomastica ferisce, di toponomastica perisce, purtroppo per chi oggi si scandalizza: ognun sa che per decenni i nomi delle strade in Emilia Romagna in generale e nel Ferrarese in particolare sono stati usati come randellate nei confronti di chi aveva altra ispirazione politica. In una provincia dove abbondano le vie “politicamente orientate” e che ha un capoluogo in cui si trovano arterie dedicate a John Lennon e Muddy Waters, mentre Benigno Zaccagnini, Giorgio La Pira o Giuseppe Dossetti, attendono ancora in panchina da lustri, davvero non è credibile che sia la via Igino Ghisellini a provocare le intemerate degli “storici democratici” (come se gli altri non lo fossero).
Questi, come noi e tanti altri cittadini ferraresi, probabilmente ogni giorno o quasi frequentano il centro della bella città estense e se devono posteggiare nelle vicinanze del Castello, ancor’oggi lasciano la propria autovettura in una via dagli evidenti rimandi piacentiniani, da settant’anni intitolata alla medaglia d’oro capomanipolo MVSN Fausto Beretta, coetaneo del Ghisellini, morto in camicia nera a Passo Uarieu, durante la guerra d’Etiopia.
Non ci risulta che, fino ad oggi, durante le faticose manovre di parcheggio nell’angusta carreggiata qualcuno abbia invocato la corte costituzionale e inveito contro i rigurgiti del fascismo, ma più probabilmente se la sarà presa con i problemi della viabilità cittadina.
Present continuous

La prima cosa sulla quale tutti gli studiosi, indipendentemente dalle proprie opinioni e valutazioni personali, avrebbero dovuto invece riflettere è un numero in precedenza riportato: 65. Sessantacinque anni.
Sarebbe, per intenderci, come se all’ordine del giorno della polemica cittadina nella Milano nei primi anni ’20, ci fosse stata la decisione di intitolare o meno una strada a Joseph Radetzky, e nella concione fossero intervenuti (absit iniuria verbis, ovviamente) Benedetto Croce e Gioacchino Volpe. Oppure venendo al passato prossimo sarebbe come se negli anni ’60 il consiglio comunale della città meneghina avesse approvato, su proposta di un consigliere di maggioranza, di avere un bel quartiere con al centro viale Fiorenzo Bava Beccaris, scatenando l’iradiddio fra giornalisti, politici e storici.
Si dirà: ciò non è avvenuto perché a nessuno sarebbe passato per l’anticamera del cervello di compiere una simile corbelleria. La storia, quella storia, non aveva “versioni alternative”, o se c’erano, erano confinate ai margini dell’accademia e dei libri di testo scolastici; la storia era una, sostanzialmente condivisa e accettata da tutti. Erano, quelli citati, fatti di un passato “passato”, trascorso, e quindi vissuto con assoluto distacco; l’attualità di quei tempi riservava ben altre preoccupazioni e priorità. Non v’era poi dubbio in alcuno che l’ispiratore della Radetzkymarsch fosse meritevole del maggiore dispregio da parte del vulgo e dell’inclita, così come il cannoneggiatore regio del maggio 1898.
Questo passato, quello centese e di decine di altre città, invece non passa, tanto è vero che una giunta di centrodestra torna per la seconda volta agli onori delle cronache per scelte toponomastiche, dopo che, due anni fa, era stata intitolata una strada ai sette fratelli Govoni, uccisi da ex partigiani nel maggio 1945 (fatti sui quali torneremo fra poco).
A parer nostro, questo è il nodo su cui gli storici dovrebbero soffermarsi, più che lasciarsi andare a poco utili riflessioni sui massimi sistemi e sulla presunta missione pedagogica dello studioso.
Si osserva chiaramente che su un nodo cruciale del nostro vivere civile ci sono sensibilità profondamente diverse nel tessuto sociale del paese, nonostante sia passato un notevole lasso di tempo. E a questo punto, davvero, solo una miope storiografia militante può parlare di “rigurgiti di neofascismo”.
E’ un fenomeno serio, che va capito prima di essere giudicato, ammesso e non concesso – e noi non lo crediamo minimamente – che allo storico spetti il giudicare.
Non ci sono “rigurgiti”, ma semmai reflussi di cattiva digestione. C’è una parte del paese che non ha mai “digerito” la storia offerta dai manuali scolastici (o dai Bignami?) riguardo al fascismo e alla Resistenza. Così come c’è una generazione irreconciliata, con figli e nipoti irreconciliati, alla faccia di chi pretendeva di imporre storie condivise o accettate. Mezzo secolo e più di fiume carsico di una memoria-storia alternativa, ignorata, sottovalutata e talvolta irrisa (in tempi recenti, sull’omicidio di don Umberto Pessina, Nazario Sauro Onofri non ha trovato di meglio che dire: “non era certo un don Camillo”), che quando torna in superficie lo fa in modo eclatante, roboante, sopra le righe, quasi ad affermare un posticcio ribaltamento di torti e ragioni.
Su questi temi proveremo ora ad offrire qualche spunto di riflessione, utilizzando gli studi sino ad oggi pubblicati sull’argomento e concentrando l’attenzione su un territorio forse “marginale” rispetto al resto dell’Emilia, ma significativo anche per eventuali considerazioni di carattere generale.

La guerra e il dopoguerra ferrarese

Per comprendere i fatti in questione, paradossalmente, poco c’è da discutere su Ghisellini e sulla “lunga notte del ‘43”, perché le ragioni prime su cui fissare la nostra attenzione non sono tanto sul federale e la sua (poco) misteriosa uccisione, ma su quanto avvenne dopo, soprattutto a guerra finita, nella zona a cavallo fra le province di Ferrara, Bologna e Modena.
In ogni caso, facciamo presente che ormai da quindici anni, purtroppo nella manifesta indifferenza di buona parte del mondo accademico, esiste un volume definitivo sull’argomento, ossia la ricerca puntigliosa e approfondita di Antonella Guarnieri (Dal 25 luglio a Salò – Ferrara 1943, Casalecchio, Grafis, 1993, volume ripubblicato di recente in versione riveduta e ampliata con il titolo Ferrara 1943 – nuova interpretazione della lunga notte, Ferrara, 2G, 2005)
Gli studi seri dedicati al “caso” emiliano a tutt’oggi si contano sulla punta delle dita (da ricordare soprattutto: N. Onofri, Il triangolo rosso, Roma, Edizioni Sapere 2000, 2007; M. ,Dondi, La lunga liberazione, Roma, Editori Riuniti, 1999; M. Storchi, Combattere si può, vincere bisogna, Marsilio, Venezia, 1998); a chi scrive appare però degno di nota che tutti i volumi in questione, prima di affrontare il tema centrale della violenza postbellica, si dilunghino per decine di pagine a spiegare “il contesto” prima di giungere ai fatti di sangue che costellarono la regione fra il 1945 ed il 1947; pare quasi che “il contesto” sia una premessa talmente indispensabile per comprendere la quotidiana atmosfera intimidatoria di quel biennio in Emilia, da dover diventare l’argomento centrale delle narrazioni, a scapito del proposito degli autori. Qua e là si intravedono pure formule giustificatorie, o comunque intonate a una sorta di discutibile legge del contrappasso. Il dubbio che non ovunque nel nord Italia, gli ex partigiani si fossero dedicati a giustiziare gli ex fascisti (le zone del Bresciano e del Bergamasco dove erano in gran numero attivi nella DC i componenti delle Fiamme Verdi non ebbero escalation di violenza paragonabili a quelle emiliane) non pare aver sfiorato mai le considerazioni dei succitati autori. Così come non sempre la geografia delle violenze post-25 aprile si sovrappone con quella degli eccidi e delle deportazioni nazifasciste, a differenza di quanto sostenuto ad esempio da Mirco Dondi.
Ferrara è con evidenza lampante uno di questi casi, basti pensare che è l’unica provincia emiliana in cui, secondo i dati delle indagini promosse dal ministero dell’Interno nel 1946 sulle uccisioni politiche a guerra finita (gli unici attendibili e puntigliosamente riportati nel volume di Onofri), il numero dei morti e degli scomparsi nel biennio 1945-46 è quasi tre volte superiore a quello degli assassinati dai fascisti e dai tedeschi (oltre 200 contro 70).
L’area centese, che aveva superato fortunosamente senza fatti di sangue il periodo dell’occupazione tedesca fu invece funestata nell’immediato dopoguerra da una serie di eventi delittuosi compiuti in gran parte da ex partigiani, che intimidirono non poco la popolazione locale: l’uccisione a Pieve di Cento dei sette fratelli Govoni (di cui solo due erano iscritti al fascio repubblicano) e di altri possidenti della zona; l’assassinio di tre sacerdoti abitanti nelle vicinanze (don Enrico Donati a san Giacomo di Lorenzatico, don Alfonso Reggiani ad Amola e don Raffaele Bortolini a Dosso) e le continue intimidazioni ai sindacalisti cattolici e ai politici democristiani, culminate con gli omicidi di Giuseppe Fanin a San Giovanni in Persiceto e di Luigi Zavattaro ad Anzola Emilia.
A parer nostro è da questi fatti che trae origine una memoria e una storia locale forse minoritaria (ma bisognerebbe vedere sino a che punto), ma durevole nel tempo, tanto da riemergere dopo oltre sessant’anni nella politica e nella toponomastica.
Su questo occorrerebbe iniziare - e non sarà mai abbastanza presto - una discussione seria fra studiosi, evitando battaglie politiche e “questioni di principio” che, alla lunga, hanno solo l’effetto di stufare irrimediabilmente l’opinione pubblica.