mercoledì 20 febbraio 2008

“Piazza Igino Ghisellini – Federale” (o del passato che non passa)

Orientamenti storici dedica le sue riflessioni alla vicenda della decisione presa dal comune di Cento (FE) di intitolare una via o una piazza a Igino Ghisellini, segretario del partito fascista repubblicano ferrarese.

Biografie e toponomastica
Igino Ghisellini era un ufficiale pluridecorato e uno stimato veterinario, morto cinquantenne in circostanze oscure nel novembre 1943. Il comune di Cento, ricca e laboriosa città del Ferrarese, ha deciso su proposta di un consigliere di intitolare una via o una piazza a questo personaggio, cosa che avverrà probabilmente nella popolosa frazione di Casumaro, dove Ghisellini risiedeva.
Un problema di toponomastica cittadina? No una querelle prima locale, poi provinciale e alla fine cassa di risonanza per polemiche a cavallo fra la politica, la storia e un passato che non passa, sul quale si riverbera uno ieri che pare “ieri” ma dal quale ci separano invece sessantacinque anni.
Già, perché Ghisellini non era un ufficiale “qualsiasi”, ma un seniore (maggiore) della milizia, già comandante del 75° battaglione camicie nere in Slovenia e Croazia fra il 1941 ed il 1943, che come altri reparti della MVSN si era distinto in rastrellamenti e rappresaglie. E prima ancora era stato ardito nella grande guerra, tra i fondatori del fascio di Cento, e volontario in Africa Orientale. Infine, e qui è il nodo, Ghisellini ha chiuso la sua vita, ammazzato quasi certamente dai suoi camerati, il 13 novembre 1943, mentre ricopriva da cinquanta giorni la carica di federale del Partito fascista repubblicano di Ferrara; peraltro fino a quel momento il veterinario contese si era sostanzialmente disinteressato di politica, concentrandosi unicamente sul suo lavoro e sulla carriera militare.
Fermo restando che, con tutta evidenza, si tratta di un infortunio politico della giunta comunale di Cento, dovuto probabilmente a ripicche stracittadine, non si capisce davvero perché il sindaco si sia impelagato in una questione che di certo non avrebbe portato lustro alla città del Guercino.
E qui chiudiamo la parentesi sulle valutazioni delle scelte politiche; riteniamo che chi si occupa di storia non dovrebbe, secondo il nostro modesto parere, esprimere pareri su cosa fanno o non fanno le amministrazioni locali. Se la democrazia ha un senso, la giunta centese è rappresentativa della maggioranza dei cittadini, e da questi delegata a decidere e scegliere. Forse per togliere ogni dubbio, sarebbe bene chiedere agli abitanti di Casumaro che ne pensano, visto che saranno probabilmente loro ad ospitare l’ingombrante insegna; ma se essi non avessero rilievi, davvero non si capisce perché non dovrebbero avere la loro “piazza Ghisellini”, con annessi oneri ed onori.
In realtà sulla querelle sono intervenuti tutti fuorché i casumaresi: associazioni partigiane, politici locali e nazionali, storici dilettanti e di professione; persino sindaci di altri comuni che hanno portato la loro solidarietà ai cittadini centesi, come se questi ultimi fossero governati da un podestà di nomina prefettizia.
Un esempio su tutti di questa poco comprensibile sovrapposizione fra ruoli, sono state le affermazioni della direttrice dell’Istituto di storia contemporanea di Ferrara; questa, intervenuta nel merito, ha infatti sostenuto in modo lapidario: “E' anticostituzionale. la cosa grave è che Ghisellini ricoprì incarichi dirigenziali nella Rsi, la stessa che si ispirava al fascismo ed era alleata del nazismo. Abbiamo il dovere di rispettare la Costituzione. Questa intitolazione è una cosa grave. Ghisellini sarà stato pure un bravo padre di famiglia, ma faceva parte della Rsi. E questo, politicamente, basta”.
Fermo restando che non si capisce cosa c’entri la costituzione con la toponomastica, e che ci pare grottesca l’idea che la corte costituzionale si dovrebbe occupare della piazza di Casumaro, ci chiediamo: la direttrice parlava a nome proprio? Dell’Istituto? Come consigliere comunale di Ferrara? O le tre cose assieme?
E infine verrebbe da dire, chi di toponomastica ferisce, di toponomastica perisce, purtroppo per chi oggi si scandalizza: ognun sa che per decenni i nomi delle strade in Emilia Romagna in generale e nel Ferrarese in particolare sono stati usati come randellate nei confronti di chi aveva altra ispirazione politica. In una provincia dove abbondano le vie “politicamente orientate” e che ha un capoluogo in cui si trovano arterie dedicate a John Lennon e Muddy Waters, mentre Benigno Zaccagnini, Giorgio La Pira o Giuseppe Dossetti, attendono ancora in panchina da lustri, davvero non è credibile che sia la via Igino Ghisellini a provocare le intemerate degli “storici democratici” (come se gli altri non lo fossero).
Questi, come noi e tanti altri cittadini ferraresi, probabilmente ogni giorno o quasi frequentano il centro della bella città estense e se devono posteggiare nelle vicinanze del Castello, ancor’oggi lasciano la propria autovettura in una via dagli evidenti rimandi piacentiniani, da settant’anni intitolata alla medaglia d’oro capomanipolo MVSN Fausto Beretta, coetaneo del Ghisellini, morto in camicia nera a Passo Uarieu, durante la guerra d’Etiopia.
Non ci risulta che, fino ad oggi, durante le faticose manovre di parcheggio nell’angusta carreggiata qualcuno abbia invocato la corte costituzionale e inveito contro i rigurgiti del fascismo, ma più probabilmente se la sarà presa con i problemi della viabilità cittadina.
Present continuous

La prima cosa sulla quale tutti gli studiosi, indipendentemente dalle proprie opinioni e valutazioni personali, avrebbero dovuto invece riflettere è un numero in precedenza riportato: 65. Sessantacinque anni.
Sarebbe, per intenderci, come se all’ordine del giorno della polemica cittadina nella Milano nei primi anni ’20, ci fosse stata la decisione di intitolare o meno una strada a Joseph Radetzky, e nella concione fossero intervenuti (absit iniuria verbis, ovviamente) Benedetto Croce e Gioacchino Volpe. Oppure venendo al passato prossimo sarebbe come se negli anni ’60 il consiglio comunale della città meneghina avesse approvato, su proposta di un consigliere di maggioranza, di avere un bel quartiere con al centro viale Fiorenzo Bava Beccaris, scatenando l’iradiddio fra giornalisti, politici e storici.
Si dirà: ciò non è avvenuto perché a nessuno sarebbe passato per l’anticamera del cervello di compiere una simile corbelleria. La storia, quella storia, non aveva “versioni alternative”, o se c’erano, erano confinate ai margini dell’accademia e dei libri di testo scolastici; la storia era una, sostanzialmente condivisa e accettata da tutti. Erano, quelli citati, fatti di un passato “passato”, trascorso, e quindi vissuto con assoluto distacco; l’attualità di quei tempi riservava ben altre preoccupazioni e priorità. Non v’era poi dubbio in alcuno che l’ispiratore della Radetzkymarsch fosse meritevole del maggiore dispregio da parte del vulgo e dell’inclita, così come il cannoneggiatore regio del maggio 1898.
Questo passato, quello centese e di decine di altre città, invece non passa, tanto è vero che una giunta di centrodestra torna per la seconda volta agli onori delle cronache per scelte toponomastiche, dopo che, due anni fa, era stata intitolata una strada ai sette fratelli Govoni, uccisi da ex partigiani nel maggio 1945 (fatti sui quali torneremo fra poco).
A parer nostro, questo è il nodo su cui gli storici dovrebbero soffermarsi, più che lasciarsi andare a poco utili riflessioni sui massimi sistemi e sulla presunta missione pedagogica dello studioso.
Si osserva chiaramente che su un nodo cruciale del nostro vivere civile ci sono sensibilità profondamente diverse nel tessuto sociale del paese, nonostante sia passato un notevole lasso di tempo. E a questo punto, davvero, solo una miope storiografia militante può parlare di “rigurgiti di neofascismo”.
E’ un fenomeno serio, che va capito prima di essere giudicato, ammesso e non concesso – e noi non lo crediamo minimamente – che allo storico spetti il giudicare.
Non ci sono “rigurgiti”, ma semmai reflussi di cattiva digestione. C’è una parte del paese che non ha mai “digerito” la storia offerta dai manuali scolastici (o dai Bignami?) riguardo al fascismo e alla Resistenza. Così come c’è una generazione irreconciliata, con figli e nipoti irreconciliati, alla faccia di chi pretendeva di imporre storie condivise o accettate. Mezzo secolo e più di fiume carsico di una memoria-storia alternativa, ignorata, sottovalutata e talvolta irrisa (in tempi recenti, sull’omicidio di don Umberto Pessina, Nazario Sauro Onofri non ha trovato di meglio che dire: “non era certo un don Camillo”), che quando torna in superficie lo fa in modo eclatante, roboante, sopra le righe, quasi ad affermare un posticcio ribaltamento di torti e ragioni.
Su questi temi proveremo ora ad offrire qualche spunto di riflessione, utilizzando gli studi sino ad oggi pubblicati sull’argomento e concentrando l’attenzione su un territorio forse “marginale” rispetto al resto dell’Emilia, ma significativo anche per eventuali considerazioni di carattere generale.

La guerra e il dopoguerra ferrarese

Per comprendere i fatti in questione, paradossalmente, poco c’è da discutere su Ghisellini e sulla “lunga notte del ‘43”, perché le ragioni prime su cui fissare la nostra attenzione non sono tanto sul federale e la sua (poco) misteriosa uccisione, ma su quanto avvenne dopo, soprattutto a guerra finita, nella zona a cavallo fra le province di Ferrara, Bologna e Modena.
In ogni caso, facciamo presente che ormai da quindici anni, purtroppo nella manifesta indifferenza di buona parte del mondo accademico, esiste un volume definitivo sull’argomento, ossia la ricerca puntigliosa e approfondita di Antonella Guarnieri (Dal 25 luglio a Salò – Ferrara 1943, Casalecchio, Grafis, 1993, volume ripubblicato di recente in versione riveduta e ampliata con il titolo Ferrara 1943 – nuova interpretazione della lunga notte, Ferrara, 2G, 2005)
Gli studi seri dedicati al “caso” emiliano a tutt’oggi si contano sulla punta delle dita (da ricordare soprattutto: N. Onofri, Il triangolo rosso, Roma, Edizioni Sapere 2000, 2007; M. ,Dondi, La lunga liberazione, Roma, Editori Riuniti, 1999; M. Storchi, Combattere si può, vincere bisogna, Marsilio, Venezia, 1998); a chi scrive appare però degno di nota che tutti i volumi in questione, prima di affrontare il tema centrale della violenza postbellica, si dilunghino per decine di pagine a spiegare “il contesto” prima di giungere ai fatti di sangue che costellarono la regione fra il 1945 ed il 1947; pare quasi che “il contesto” sia una premessa talmente indispensabile per comprendere la quotidiana atmosfera intimidatoria di quel biennio in Emilia, da dover diventare l’argomento centrale delle narrazioni, a scapito del proposito degli autori. Qua e là si intravedono pure formule giustificatorie, o comunque intonate a una sorta di discutibile legge del contrappasso. Il dubbio che non ovunque nel nord Italia, gli ex partigiani si fossero dedicati a giustiziare gli ex fascisti (le zone del Bresciano e del Bergamasco dove erano in gran numero attivi nella DC i componenti delle Fiamme Verdi non ebbero escalation di violenza paragonabili a quelle emiliane) non pare aver sfiorato mai le considerazioni dei succitati autori. Così come non sempre la geografia delle violenze post-25 aprile si sovrappone con quella degli eccidi e delle deportazioni nazifasciste, a differenza di quanto sostenuto ad esempio da Mirco Dondi.
Ferrara è con evidenza lampante uno di questi casi, basti pensare che è l’unica provincia emiliana in cui, secondo i dati delle indagini promosse dal ministero dell’Interno nel 1946 sulle uccisioni politiche a guerra finita (gli unici attendibili e puntigliosamente riportati nel volume di Onofri), il numero dei morti e degli scomparsi nel biennio 1945-46 è quasi tre volte superiore a quello degli assassinati dai fascisti e dai tedeschi (oltre 200 contro 70).
L’area centese, che aveva superato fortunosamente senza fatti di sangue il periodo dell’occupazione tedesca fu invece funestata nell’immediato dopoguerra da una serie di eventi delittuosi compiuti in gran parte da ex partigiani, che intimidirono non poco la popolazione locale: l’uccisione a Pieve di Cento dei sette fratelli Govoni (di cui solo due erano iscritti al fascio repubblicano) e di altri possidenti della zona; l’assassinio di tre sacerdoti abitanti nelle vicinanze (don Enrico Donati a san Giacomo di Lorenzatico, don Alfonso Reggiani ad Amola e don Raffaele Bortolini a Dosso) e le continue intimidazioni ai sindacalisti cattolici e ai politici democristiani, culminate con gli omicidi di Giuseppe Fanin a San Giovanni in Persiceto e di Luigi Zavattaro ad Anzola Emilia.
A parer nostro è da questi fatti che trae origine una memoria e una storia locale forse minoritaria (ma bisognerebbe vedere sino a che punto), ma durevole nel tempo, tanto da riemergere dopo oltre sessant’anni nella politica e nella toponomastica.
Su questo occorrerebbe iniziare - e non sarà mai abbastanza presto - una discussione seria fra studiosi, evitando battaglie politiche e “questioni di principio” che, alla lunga, hanno solo l’effetto di stufare irrimediabilmente l’opinione pubblica.