lunedì 14 aprile 2008

Fra guerra e dopoguerra

Premesse lunghe, indagini brevi
G. Crainz, L’ombra della guerra, Roma, Donzelli, 2007.

Anche Guido Crainz ha deciso di dedicare alcune (non molto originali) riflessioni sul tema delle uccisioni arbitrarie avvenute dopo la liberazione nel nord Italia. Peccato che lo studioso, similmente a diversi suoi predecessori (su tutti Mirco Dondi e Nazario Sauro Onofri) prima di affrontare quella che oggettivamente fu la pagina nera della Resistenza italiana, senta la necessità di partire ab ovo, perdendosi per oltre 80 delle 150 pagine del volume in premesse, contestualizzazioni, analisi e appunti. Per Crainz, come per gli altri sopra citati ricercatori, pare impossibile, a più di sessant’anni dai fatti in questione, affrontare di petto i diecimila morti ammazzati del 1945 senza tutti i possibili distinguo, tanto da rendere inspiegabile persino il sottotitolo (Il 1945, l’Italia) visto che dell’ultimo anno di guerra si parla assai poco.
In se L’ombra della guerra poco aggiunge a quanto già si sapeva, tanto è vero che per quanto riguarda le cifre, vengono riportate quelle – fino ad oggi al di sopra di qualsiasi contestazione – provenienti dagli studi di Onofri. Poco di nuovo anche riguardo al presunto rapporto “causa-effetto” fra eccidi fascisti e omicidi postbellici. Niente, o quasi, sugli eccessi che caratterizzarono molti dei fatti di sangue riportati nel volume; si sorvola poi sul fatto che non tutti i partigiani avessero il furor ideologicus di fare pulizia a tutti i costi (l’esperienza delle “Fiamme verdi” nel bresciano o della “Osoppo” in Carnia è assente). Bisogna arrivare oltre pagina 100 per sapere che rimasero vittime innocenti della furia totalitaria diversi sacerdoti e molti attivisti della Democrazia cristiana, specie in Emilia.
La domanda in conclusione al volume, ossia se l’utopia di un “cambiamento sostanziale” rispetto all’Italia fascista fosse fondata o no, meriterebbe una approfondita indagine sulla parola “cambiamento”. In estrema sintesi, se Crainz intende il definitivo passaggio dalla dittatura alla democrazia, le elezioni del 18 aprile 1948 sono la risposta ai suoi dubbi. Se lo studioso vuole dire altro, rimpiangendo scenari di “democrazia progressiva”, in tal caso, davvero, non siamo disponibili a seguirlo per tale impervio sentiero.

Alpini a Salò
C. Bertolotti, Storia del battaglione Bassano, Bologna, Lo Scarabeo, 2007.

Il battaglione alpini “Bassano” faceva parte della divisione “Monterosa” dell’esercito di Salò, e nel 1944 fu schierato prima in Liguria e successivamente sulle Alpi piemontesi, nelle valli Varaita e Maira, dove si arrese ai partigiani alla fine dell’aprile 1945.
Claudio Bertolotti, giovane ufficiale degli alpini, ripercorre la storia non lieta di questo reparto, dalla costituzione, all’addestramento in Germania, fino alla guerra contro i francesi gaullisti e contro i partigiani di “Giustizia e Libertà”. Lo studio, assai approfondito dal punto di vista militare, ha un tono improntato alla pietas (e a parer nostro non potrebbe essere altrimenti) e un apprezzabile equilibrio nel narrare la vicenda di un reparto i cui appartenenti cercarono di sentirsi prima di tutto soldati; molti di essi si accorsero poi, purtroppo, di essere “soldati dalla parte sbagliata”, fatto sul quale Bertolotti cerca di sorvolare, ma che emerge a più riprese nelle pagine della ricerca.
L’”alpinità”, il sentirsi parte di una comunità dalle solide tradizioni militari, fu l’unico scudo a separare i militi dalla catastrofica realtà di quei giorni; assai più dell’inutile propaganda salotina. Anche questa illusione, però, servirà poco ai “bassanini”, quasi tutti giovani delle leve 1924-26, per nascondere la triste quotidianità di rastrellamenti, rappresaglie e fucilazioni.
Non occorre però trascurare alcuni fatti, in genere trascurati dalla storiografia resistenziale, che invece appaiono a noi degni di indagini più approfondite. Le diserzioni che ridussero il battaglione dai circa mille uomini della forza iniziale agli ottocento che si arresero agli insorti dopo il 25 aprile, avvennero in stragrande maggioranza subito dopo il rientro in Italia del reparto, durante l’estate del 1944 (fatto che avevamo sottolineato nella nostra tesi di dottorato sulle forze armate della RSI, ormai dieci anni or sono). Da quel momento in avanti gli abbandoni furono praticamente nulli, a dimostrazione che la forza dei legami di reparto (l’essere alpini) fu più forte di qualsiasi altra valutazione dei singoli, comprese eventuali, e assai rade, manifestazioni di fede fascista.
Altro dettaglio da non sottovalutare riguarda l’utilizzo operativo dell’unità, che presenta significative continuità col passato nonostante le vicende armistiziali. Nella guerra di Grecia e nell’occupazione balcanica, le truppe alpine si fecero la fama di solidi difensori e durissimi rastrellatori (si vedano al riguardo le precise analisi di Giorgio Rochat nel suo Le guerre italiane 1936-43, Torino, Einaudi, 2005): sono caratteristiche queste che si riscontrano senza particolari differenze anche per gli alpini della RSI. Tra l’altro gli ufficiali e diversi veterani sottufficiali provenivano dal fronte jugoslavo, compreso il comandante del raggruppamento di cui il “Bassano” faceva parte, il tenente colonnello Armando Farinacci, fratello del gerarca cremonese Roberto, e già comandante del battaglione alpino “Esille” in Montenegro.
Nel finale, a ulteriore segno di inequivocabili continuità fra l’esercito regio e quello repubblichino, è possibile notare, come al momento dell’armistizio, soprattutto la codardia di alcuni comandanti e l’ingenua coerenza di parecchi sottoposti. Il responsabile del battaglione che per salvare la vita patteggia la resa del reparto e denuncia gli elementi implicati nelle operazioni antipartigiane non è migliore dei tanti ufficiali che nel settembre 1943 cercavano un abito civile e un mezzo qualsiasi per giungere a casa, mentre i soldatini in grigioverde finivano sui vagoni per la Germania. Alcuni di questi non pregevoli elementi con i galloni sulle maniche terminarono la loro carriera nell’esercito della repubblica italiana.
Ci sentiamo quindi vicini alla pietas del bravo Bertolotti, per chi, come il fucilatore Adriano Adami, concluse la sua vita violenta davanti al plotone d’esecuzione partigiano, e per i tanti che pagarono in solido la propria scelta sbagliata, senza possibilità di remissione.

Ufficiale e gentiluomo
E. Beraudo di Pralormo, Il mestiere delle armi, Savigliano, Artistica Savigliano, 2007 (2 voll.).

Emanuele Beraudo di Pralormo, i cui diari sono pubblicati a cura di Nicola Labanca, redattore anche di una pregevole introduzione, raccolgono le annotazioni quasi quotidiane di un ufficiale che attraversò tutte le campagne militari italiane dal 1939 fino al 1945, concludendo la propria esperienza nelle forze armate nel 1950.
Il disincanto, l’attaccamento all’onore delle armi, la scarsa ideologizzazione e una visione di fatti e personaggi concreta e non faziosa, sono i tratti distintivi del generale che fu comandante di divisione in Africa orientale, poi prigioniero degli inglesi in India, e successivamente fra gli artefici della ricostituzione dell’esercito italiano al sud, dopo l’armistizio. Le note di Beraudo sono scarne ma efficaci, e non potendo approfondire la vasta mole di commenti, riflessioni e analisi presenti nei due volumi, ci soffermiamo su quelle che, per i temi riportati nelle recensioni dianzi riportate, ci paiono di maggiore interesse in questa sede.
Incaricato di ricostituire il comando militare territoriale del regio esercito nella Torino incandescente del maggio 1945, incontra il suo parigrado Alessandro Trabucchi, fra i protagonisti della Resistenza piemontese, che la prosa pacata del Pralormo dipinge a tinte affatto diverse dall’agiografia partigiana: l’ufficiale gli appare esaltato “sotto l’ubriacatura del successo riportato”; la spiegazione, tanto semplice e lapidaria quanto sostanzialmente assente nelle analisi politically correct è che Trabucchi “era stato imprigionato dai tedeschi a San Vittore, è scampato alla morte e ora si vendica” (p. 442) e de hoc satis.
Dopo la comprensione per il collega, Beraudo non può però esimersi dal commentare il risultato della sete di rivincita, la quale, evidentemente, non gli appare quella salubre manifestazione di giustizia popolare di cui alcuni storici continuano ancora oggi a parlare: “Ieri il Trabucchi ha ammesso che qui a Torino si sono fucilati 6000 fascisti (in realtà meno di metà secondo le stime di Onofri, n.d.r.). Questi eccidi sono obbrobriosi e indegni di popolo civile. La vita umana da questa gente che ha perduto la testa non viene più calcolata nulla. Si ammazza un uomo come si tira il collo ad un pollo, con la stessa indifferenza” (p.443).
Nonostante i sentimenti monarchici, Beraudo accetta – dolorosamente, ma senza disubbidienze – i risultati del referendum del 2 giugno, lamentandosi semmai della scarsa considerazione per l’esercito come istituzione, da parte dei politici di allora.
Ultima e non lieve incombenza che il protagonista del diario ebbe dalle forze armate del nostro paese, fu quella di presiedere il tribunale militare chiamato a processare maresciallo Rodolfo Graziani, dopo che le autorità civili si erano dichiarate incompetenti a giudicare l’ex capo dell’esercito di Salò. Tutta l’ultima parte delle memorie del generale piemontese e la ricca appendice del volume sono dedicate a questo difficile compito, che fu comunque svolto con la consueta pacatezza, nonostante Beraudo fosse stato “strattonato” da ogni parte nel corso del dibattimento. Le critiche alla sentenza, il non aver accettato compromessi al ribasso o al rialzo da parte della politica, gli costarono la carriera ed il posto, conducendolo ad un anticipato pensionamento.
Il mestiere delle armi è un’opera originale e stimolante, specie per chi ha come interesse prevalente dei propri studi la storia militare del nostro paese durante e dopo la 2° guerra mondiale, segnalandosi per la completezza delle annotazioni come anche per la ricca raccolta iconografica, composta quasi integralmente da fotografie scattate dallo stesso Emanuele Beraudo nel corso della sua lunga carriera militare.

L’importanza delle didascalie
M. Franzinelli, RSI, Milano, Mondadori, 2007.

Di Franzinelli e di questa opera, che raccoglie decine di fotografie e manifesti inediti del periodo 1943-45, vorremmo dire tutto il bene possibile, soprattutto per alcune preziose immagini che rendono bene la plumbea e ferale atmosfera in cui si muovevano gli aderenti, politici e militari, alla repubblica di Mussolini.
Purtroppo, oltrepassata la premessa, peraltro caratterizzata da interessanti spunti di analisi sull’immagine ufficiale e quella “privata” di Salò, il commento alle immagini ci apparso di qualità inspiegabilmente bassa, con frequenti errori e imprecisioni.
Ne segnaliamo qualcuno; a p. 78, si vede Rodolfo Graziani a Novara il giorno del giuramento dell’esercito di Salò, avvenimento accaduto non nel gennaio 1944, come riportato, ma il 9 febbraio 1944, anniversario di fondazione della repubblica romana. A p. 80, uno sconosciuto tenente colonnello della GNR al fianco di Carlo Borsani viene indicato come Niccolò Nicchiarelli, che all’epoca era generale. Il battaglione “Barbarigo” della X Mas, ad Anzio non era agli ordini della 175° ma della 715° divisione di fanteria tedesca (p. 86); dubitiamo che gli adolescenti immortalati in basso a p. 97 facessero parte della compagnia “Bir el Gobi”, che perlopiù era composta da reduci del reggimento “Giovani fascisti”; a p. 101 non intravediamo alcuna donna che assomigli a Piera Gatteschi, la comandante del servizio ausiliario femminile, come invece vorrebbe la didascalia; davvero madornali le imprecisioni nella sequenza di pp. 118-119. Gli uomini indicati come SS al comando dell’ufficiale Willi Lembke sono invece tutti avieri della Flak, o forse componenti del “Sicherungsregiment” della Luftwaffe, come si evince dalla divisa e dalle mostrine. Si è persa quindi una occasione per fare luce sui fatti di sangue di cui Franzinelli parla nel commento alle fotografie. A p. 124 si afferma che il generale Giovanni Esposito apparteneva alla GNR quando invece era il comandante di piazza dell’esercito della RSI a Trieste: lo stesso è immortalato a p. 131, in una foto erroneamente ambientata a Pavia, e in cui l’ufficiale è scambiato per il generale Amilcare Farina, comandante della divisione “San Marco”; a p. 142 non ci sono bombardieri angloamericani, bensì dei “Baltimore”, bimotori statunitensi della regia aeronautica operante al sud; a p. 152 a fianco di Mussolini e Pavolini non c’è Rodolfo Graziani, ma un ignoto generale dell’esercito di Salò, come si evince anche in questo caso da distintivi e mostreggiatura.
Purtroppo ci pare di poter dire che la tanto sottovalutata storia militare mai come in questo caso sarebbe stata un decisivo supporto per poter definire in modo corretto situazioni e personaggi sui quali ancora resta molto da dire e da ricercare
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