domenica 21 febbraio 2010

Ingerenze vaticane?

Una democrazia impossibile
Maurizio Serio, Il mito della democrazia sociale, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009


La vicenda politica e umana di Giovanni Gronchi, il primo democristiano eletto capo dello stato, è stata studiata negli scorsi anni in modo disattento, fermo restando il fatto che i leader della DC hanno goduto generalmente di considerazioni parziali e intermittenti da parte degli studiosi accademici italiani: si è dovuto ad esempio attendere il XX anniversario della morte di Benigno Zaccagnini per vedere finalmente indagini serie e ponderate sullo statista romagnolo. Maurizio Serio, sin dalle premesse, più che compiere un’analisi biografica, svolge un inchiesta accurata sul motivo conduttore dell’azione politica del politico di Pontedera, ossia il “mito” – da sempre oggetto delle analisi dell’Autore – di un partito cattolico attore prevalente della rivoluzione che avrebbe dovuto portare il lavoro al centro dell’azione politica dello stato: la “democrazia sociale” che da il titolo al volume. In realtà, come si osserva nella ricerca, questo mito non fu mai descritto in modo chiaro da Gronchi, anzi, se possibile egli lo declinò sempre “al negativo”; l’azione politica del futuro presidente della repubblica fu infatti una incessante lotta contro il liberalismo, sia inteso in senso classico, come pure nelle correnti che avevano fatto presa all’interno del cattolicesimo italiano. Se osservato in quest’ottica, ci fu un filo conduttore nel contraddittorio percorso del politico toscano, il quale nel giro di trent’anni ebbe modo di essere al fianco di Luigi Sturzo nel Partito Popolare, poi sottosegretario nel primo gabinetto di Benito Mussolini, fino a giungere al governo con Alcide de Gasperi. Lo studio di Maurizio Serio, condotto su rigorose indagini d’archivio e una ricca bibliografia, restituisce a parer nostro non solo il percorso umano dello statista pisano, ma anche lo specchio di un’epoca; furono infatti molti i leader politico di ogni colore, nel corso del XX secolo, a preconizzare la fine del liberalismo e della democrazia, che doveva essere sostituita da “stati sociali” ed “equilibri avanzati” di ogni colore politico, dal salazarismo portoghese al socialismo di stato sovietico, passando attraverso lo stato-partito nazista e le corporazioni fasciste (di cui Gronchi si innamorò per qualche tempo). Pochi – forse solo il ramingo don Luigi Sturzo – capirono fin da subito i limiti di questa prospettiva, la quale nessun legame aveva con le esigenze vere e vive dei popoli europei. Egli fu buon profeta, purtroppo poco ascoltato, come spesso avviene. Il “mito” della democrazia sociale, infatti è in gran parte intatto ancora oggi per molti politici italiani.
La storia non si riscrive?
Giuseppe Brienza, Unità senza identità, Chieti, Solfanelli, 2009

Giuseppe Brienza, a differenza di diversi maître à penser, non ha la pretesa di dare autorevoli conferme o altrettanto ingombranti smentite alle consolidate (mummificate?) interpretazioni sul risorgimento italiano, ma semplicemente di far riflettere il lettore su alcune pagine ritenute “inalterabili” nella storia del secondo cinquantennio del secolo XIX. Il compito dello studioso romano è arduo, in quanto nel nostro paese pare che tutto ciò che in qualche modo possa mettere in discussione una storiografia che talvolta odora di ideologie fallite e stantìe, è in genere considerato operazione effettuata da potenze oscure, illiberali e reazionarie, per fini (ovviamente!) non limpidi.
E’ questa, a parer nostro, una vera e propria forma di “horror vacui”: si teme che spiegando o ricostruendo i fatti in altro modo, possano crollare non tanto le affastellate vestigia di studi talvolta ultracentenari, ma addirittura l’architettura costituzionale e l’unità nazionale; perfino uno studioso non tacciabile di simpatie verso questa forma di “revisionismo”, come Mario Isnenghi, ha parlato con grande spregiudicatezza di questo tema nel volume collettaneo curato da Angelo del Boca La storia negata (Vicenza, Neri Pozza, 2009).
Brienza non ha la pretesa di dare lezioni a nessuno, ma solo di far riflettere sul fatto che la “piallatura” – talvolta sanguinosa e intollerante verso le tradizioni di molte regioni italiane – avvenuta nel trentennio successivo all’unità d’Italia, fu il vero e proprio “peccato orginale” da cui discesero i mali di cui la nazione soffre da un secolo e mezzo: la scarsa coesione sociale, il progresso di una parte costruito sull’abbandono dell’altra, l’abolizione di molti usi e costumi, talvolta anche fortemente indipendenti da loro, per un’uniformità di facciata che poco ha giovato alla costruzione del paese.
E’ davvero meritevole di un’anatema “laico, liberale e libertario” chi si pone in quest’ottica? E, di grazia, per quale ragione non possiamo ragionare attorno a quei temi? Infelice epoca davvero, quella in cui non ci si fanno domande per paura delle risposte…



Un pastore e la sua epoca
Paolo Gheda (a cura di), Siri, la Chiesa, l’Italia, Genova, Marietti, 2010

E’ noto che alcune “leggende nere” create per fini politici attorno ad alcune figure di pastori della Chiesa, siano rimaste tali anche nei libri di storia. E così, come molti miti e leggende, il cardinale Giuseppe Siri, anche a causa di furbesche estrapolazioni dei suoi pensieri e delle sue parole, è passato dalla cronaca dei giornali di partito alla storia titolata come il “reazionario Siri”, non diversamente da come Giovanni Lercaro è divenuto per contrapposizione “il progressista Lercaro”. Tutto ciò sarebbe risibile se gli studiosi, almeno quelli in buona fede, si fossero attenuti alla mai abbastanza ricordata regola di Renzo de Felice, per cui la storia prima si ricostruisce e poi si interpreta, e non il contrario.

Questo pregevole volume collettaneo curato da Paolo Gheda, non ha la pretesa di rendere giustizia nei confronti di questa o quella tesi, ma semplicemente di studiare Giuseppe Siri come si farebbe con qualsiasi altra figura storica: senza pregiudizi, e ripartendo da documenti, bibliografia, carteggi e testimonianze. Da questa imponente raccolta di scritti emerge un quadro assai composito dell’attività pastorale del cardinale di Genova, e il ruolo tutt’altro che marginale che ebbe nelle scelte della chiesa a cavallo degli snodi cruciali della conclusione del Concilio e dell’ondata rivoluzionaria del 1968. A tessere i fili della narrazione studiosi e ricercatori di primo piano, coordinati con grande bravura da Gheda: Benny Lai, Gaetano Quagliarello, Lorenzo Ornaghi, Danilo Veneruso, Pietro Borzomati, Roberto de Mattei e lo steso curatore, ci offrono tasselli inediti o poco noti dell’intensa attività pastorale di Giuseppe Siri, e dell’influenza che ebbe in alcune scelte decisive del complesso pontificato di Paolo VI, a partire dalla contrarietà all’uso dei mezzi di contraccezione, poi esplicitata nell’enciclica “Humanae Vitae”; il volume è di facile e appassionante lettura, nonostante i nodi affrontati siano tutt’altro che semplici. Resta da chiedersi, anche in questo caso, come mai si sia dovuto attendere più di vent'anni dalla scomparsa dell'illustre presule prima che sia stata possibile analizzare senza pregiudizi questa stagione della chiesa italiana. Ci auguriamo che questo articolato lavoro d'equipe potrà essere sufficiente a smontare l'ombra nera calata su questo protagonista del concilio vaticano secondo.