lunedì 29 agosto 2011

La scoperta dei vinti: intervista a Giampaolo Pansa

La scoperta dei vinti?

di Andrea Rossi



Questo “Orientamenti storici” riporta una intervista esclusiva a Giampaolo Pansa; indipendentemente dal’opinione che si può avere del giornalista monferrino, i suoi volumi dedicati ai fatti di sangue successivi alla fine della guerra in Italia sono da anni oggetto di infinte discussioni fra i ricercatori di storia contemporanea; diversi di questi hanno fatto dell’“antipansismo” (pessimo neologismo, ma che ci pare l’unico capace di definire correttamente questa corposa corrente di pensiero) una specie di ossessione che ha finito per deragliare dalla – sia pure legittima – polemica interpretativa, assumendo in modo piuttosto strumentale i contorni di una battaglia a sostegno dei valori fondanti del nostro tribolato paese: da un lato gli storici antifascisti e scientifici, dall’altro i pubblicisti nostalgici e i loro discepoli, veri o presunti. Così, a coronamento di una lunga serie di saggi e articoli assai duri e polemici redatti da vari storici italiani, un paio di anni fa è stato dato alle stampe un volume collettaneo curato da Angelo del Boca, La storia negata (Vicenza, Neri Pozza, 2009, la nostra recensione del lavoro è in: http://orientamentistorici.blogspot.com/2010/04/venticinque-aprile-e-dintorni.html), quasi interamente dedicato a Giampaolo Pansa, qui ufficialmente gratificato dell’epiteto di “rovescista”: fumosa definizione che dovrebbe indicare l’essere propugnatore di ricostruzioni e interpretazioni errate, faziose e diffamatorie della Resistenza: qualcosa nell’ambito della storiografia scientifica non si è mai visto ne’ sentito, ma tant’è …

Curiosamente questo pessimo aggettivo risulta ostico non solo all’orecchio, ma anche al correttore automatico di “word”: “rovescista” diventa infatti "rovesciata" e qualche incauto addetto ai lavori, affascinato dall’inascoltabile appellativo, è poi rimasto vittima dello stesso vocabolo: nel saggio che Maria Elisabetta Tonizzi ha dedicato a “La Resistenza in Italia: Partigiani, Alleati, usi pubblici della storia” (Il mestiere dello storico n. 1-2011) si trova infatti in più parti la parola "rovesciata" completamente avulsa dal contesto, e quindi del tutto incomprensibile per il lettore. Le cose, a nostro avviso, sono più complesse di come molti vorrebbero, e non ci pare inutile sottolineare un dato essenziale da cui tutti “bon grè mal grè” devono partire, ossia l’incapacità dei critici dell’editorialista di “Libero” di confutare uno solo degli episodi da lui narrati; se Pansa avesse proposto ricostruzioni deformate di vicende inesistenti, non sarebbe stato difficile smentirlo, come è avvenuto nel caso di altri e meno accorti ricercatori. Di conseguenza paragonare un giornalista e studioso scrupoloso (rammentiamo che il suo volume dedicato alle forze armate di Salò, Il gladio e l’alloro, pubblicato da Mondadori nel 1991, è tuttora uno strumento indispensabile per approcciare in modo scientifico le vicende dell’ultimo esercito di Mussolini) con gli sciamani dell’antisemitismo, creatori di fatti mai avvenuti e negatori di eventi accertati, è a parer nostro operazione scorretta e deontologicamente riprovevole. Come diceva Leonardo Sciascia: “... i fatti si dividono in due categorie: quelli accaduti e quelli inventati ...”: non è quindi colpa del "rovescista” Pansa se alla cartiera di Mignagnola (solo per citare un caso) i partigiani del comandante Falco ammazzarono fra la fine di aprile e i primi di maggio 1945, dopo atroci torture, non meno di ottanta prigionieri fascisti, uomini e donne; e non si può addebitare al “rovescista” Pansa la distrazione pluridecennale della storiografia antifascista su questo come su decine di altri episodi simili (salvo poi fare uscire tre volumi in due anni dedicati alla strage, guarda caso, non prima ma subito dopo l’uscita de Il sangue dei vinti). Si può anche dire che il giornalista piemontese è un “... rovistatore della Resistenza ...” come con scarso aplomb ha sostenuto Angelo d’Orsi qualche anno addietro, ma di certo non si è fatto un buon servizio alla storia della guerra di Liberazione tacendo questi eventi luttuosi e screditando strumentalmente chi li ha descritti con cognizione di causa. Forse sarebbe stato meglio invece parlarne prima, diffusamente e senza censure, ma questo avrebbe comportato uno sforzo per andare oltre alle appartenenze a ideologie decrepite. Invece queste ultime sono, ancora oggi, le colonne d'Ercole di una non marginale parte del mondo accademico.


INTERVISTA A GIAMPAOLO PANSA

“I figli dell’aquila” è stato pubblicato nel 2002, “I vinti non dimenticano” è del 2010. Nel mezzo ci sono quasi dieci anni e sette volumi dedicati agli strascichi sanguinosi della guerra civile in Italia. E’ un lasso di tempo sufficiente per fare un bilancio su questa tua lunga stagione di ricerche?
Si, senz’altro, anzi penso si possano fare diversi bilanci. Quello professionale è assolutamente positivo, specie nell’osservare che ha pagato la “diversità” con cui ho trattato il tema della violenza sui vinti. Lo scrivere con un taglio non conforme alla retorica resistenziale, è stato la chiave di tutto; ho cercato fin dal principio di “cantare” un’aria musicale mai intonata nel mondo della storiografia antifascista, e se devo stare al riscontro editoriale, direi che questa scelta mi ha dato ragione: Il sangue dei vinti e i volumi successivi hanno venduto centinaia di migliaia di copie, e le ristampe non si contano.
C’è poi un bilancio umano, che non è meno importante; ho potuto dare voce a un mondo che fino a qualche anno fa non conoscevo e che per decenni era stato costretto ad elaborare in silenzio le proprie dolorose vicende familiari: continuano ad arrivarmi centinaia di lettere e fino ad oggi credo di averne ricevute non meno di ventimila.
Qualche rammarico?
Il bilancio politico credo sia deludente. La sinistra italiana ha dimostrato una incredibile miopia su questi argomenti; la classe dirigente dei DS e poi del PD avrebbe potuto approfittare dell’occasione per fare pubblicamente i conti con una parte inconfessabile del proprio passato, invece i leader post comunisti hanno scelto il silenzio, o peggio: hanno fatto finta che l’argomento fosse inesistente, e che i miei libri fossero una specie di “fuoco amico” sui miti fondativi della repubblica. È stata una occasione perduta per dare credibilità vera alla scelta riformista dell’ex PCI.
Dalla pubblicazione de “Il sangue dei vinti” in avanti hai partecipato a decine di dibattiti, tavole rotonde, interviste televisive e radiofoniche. Ti sei mai trovato davanti a qualcuno che ti abbia detto apertamente che scrivi falsità?
No, mai. E fino a oggi non sono mai stato citato in giudizio da nessuno e nemmeno costretto a scusarmi per aver detto cose non vere. Per questo molti storici di professione che hanno polemizzato con me alla fine sono stati messi sotto scacco, tanto che sempre meno spesso trovo critiche ai miei lavori, come accadeva qualche anno fa; prima di pubblicare un libro, ho sempre controllato la veridicità dei fatti non una, ma due, tre, quattro volte, incrociando sempre fonti diverse fra loro. La mia scuola non sarà quella dello storico di professione, ma è senz’altro quella dei cronisti dei quotidiani di una volta, quando si diceva “meglio beccarsi una querela che essere costretti a una smentita”.
Scrivi ancora molto, eppure hai diradato le tue apparizioni in pubblico.
Ho praticamente sospeso gli incontri pubblici non per timore del contraddittorio, ma perché dall’ottobre 2006, dopo le violenze avvenute durante la presentazione de “La grande bugia” a Reggio Emilia, la mia presenza comporta anche precauzioni legate alle forze dell’ordine. E’ una cosa che vivo come una limitazione dei miei diritti civili. Ho sempre pensato che Carabinieri e forze di Polizia debbano difendere i cittadini più deboli di me.
Infine per quanto riguarda le interpretazioni, come ti spieghi l’ostilità di tanti studiosi universitari?
Perché ho detto chiaramente quello che nessuno di loro vuole ammettere per motivi ideologici: la Resistenza non fu tutta uguale. Alcuni partigiani combattevano per la democrazia, e altri combattevano per instaurare in Italia una dittatura comunista, come in Jugoslavia. Se gli storici non fossero spesso anche dei militanti politici, queste banalità sarebbero già state chiarite da un pezzo …