martedì 18 dicembre 2012

Percorsi oscuri, percorsi oscurati

Militanza e reticenza
Massimiliano Griner – Umberto Berlenghini, L’aquila e il condor, Milano, Sperling&Kupfer, 2012

La sensazione che si ha nel leggere le memorie di Stefano delle Chiaie, raccolte e curate con scrupolosa diligenza da Massimiliano Griner e Umberto Berlenghini, è quella di essere di fronte a un verbale di interrogatorio, uno dei tanti rilasciati dal leader di Avanguardia Nazionale nella sua ultracinquantennale militanza nella destra radicale. Il tono generale è infatti freddo e distaccato, e solo qualche volta pare aderire all’immagine di agitatore nero che delle Chiaie vuole dare di sé. L’avventura umana e politica, vissuta ai margini della galassia della destra romana, prima istituzionalmente, nel MSI, e successivamente nei canali non sempre limpidi dell’attivismo extra-partitico, è una storia minoritaria (ma non trascurabile) specie se paragonata ad altri movimenti politici degli anni ’60 e ‘70 che proponevano la dissoluzione dell’ordine democratico in nome della rilettura del marxismo-leninismo. Senza scendere nelle banalità degli “estremi che si toccano”, non ci pare superfluo notare come – effettivamente – entrambe le fazioni che propugnavano una resa dei conti rivoluzionaria contro la stabilità del sistema, si fossero nutrite (come bene ha compreso Richard Drake) dei cascami soreliani in salsa italica: non a caso il metro di paragone per comprendere il successo o la sconfitta della propria iniziativa, è per delle Chiaie “la conquista della piazza” e conseguentemente uno dei momenti topici dell’esperienza umana dell’estremista di destra è la rivolta di Reggio Calabria del 1970, indicata nella sua Weltanschaung non come l’assalto disperato al forno delle grucce, ma come la realizzazione concreta del mito della rivoluzione nazionalpopolare.
Sulla lunga parentesi centro e sudamericana, le pagine paiono più partecipate e autentiche, ma anche paradossalmente reticenti: delle Chiaie incontra infatti i peggiori dittatori sudamericani e i loro sanguinosi vassalli, con tanto di funzioni di consigliere per le polizie politiche cilene, argentine e boliviane, senza un singolo accenno alle repressioni disumane che avvenivano in quei paesi. Dal poco credibile Sudamerica anni ’70 all’ancor meno plausibile panorama italico nello stesso periodo il passo è breve; il fondatore di Avanguardia Nazionale, sfiora – a suo dire in modo del tutto casuale e involontario – tutti i protagonisti dei drammatici eventi degli anni di piombo: è uomo di fiducia di Valerio Borghese ai tempi del tentato golpe del 1970, conosce personalmente quasi tutti gli attori della destra eversiva, da Mario Merlino a Pierluigi Concutelli, ma è dichiarato estraneo, al termine di una estenuante serie di processi, a tutte le vicende stragiste di quell’oscura stagione della storia del nostro paese. Cercare di sapere di più dalla laconica prosa del protagonista, è impossibile: l’ultima parte del corposo volume pare un memorandum difensivo, tanto pieno di date e dettagli e tanto vuoto di qualsiasi partecipazione umana a quei fatti.
Come disse nei primi anni ‘90 Andrea Barbato intervistando il guerriero nazionalrivoluzionario appena uscito dal carcere: “lei è un colpevole molto fortunato; o è un innocente molto sfortunato”. Vent’anni son passati, e non ci pare che si possa aggiungere molto di più.

La svastica di Claretta
Mimmo Franzinelli, Il prigioniero di Salò, Milano, Mondadori, 2012

Il “fondo Petacci”, ossia il cospicuo carteggio che intercorse fra Claretta Petacci e Benito Mussolini nel corso della tragica vicenda della repubblica di Salò, recentemente reso disponibile nella sua interessa, è stato oggetto in tempi recenti di analisi approfondite (rammentiamo su tutte quelle di Giovanni de Luna e Pasquale Chessa), che hanno portato apporti di decisiva importanza nell’interpretazione del biennio 1943-45. Mimmo Franzinelli, col suo volume, aggiunge altre riflessioni oltre a quelle degli studiosi precedentemente citati, riuscendo a contestualizzare molti dei passaggi di questa corrispondenza con i fatti e le vicende di quei mesi. Il dato che ci appare degno di nota, più che l’abulia del grigio duce lacustre, è l’iperattivismo vendicativo e filonazista dell’amante, che si rivela appieno nella vicenda del processo a Galeazzo Ciano, per il quale richiede la morte senza giri di parole (come per gli altri imputati) e aggiungendo che quello avrebbe dovuto essere solo il principio di una wagneriana purga di sangue di ispirazione hitleriana. Il paragone fra la genocida “serietà” del cancelliere del Reich e la velleitaria azione (zuppa di autocommiserazione) dell’ultimo Mussolini è uno dei leit motiv delle discussioni fra i due amanti.
Altra nota che emerge con chiarezza è la percezione chiara che il dittatore gardesano ha dello scollamento fra il suo governo e il paese: da un lato la Repubblica sociale non è credibile, è screditata e succube dei nazisti; dall’altro Mussolini ricambia questo discredito con l’odio verso il popolo, accentuato scientemente dalla fanatica amante, forse al fine di mettere sull’altro piatto della bilancia la propria fedeltà cieca nella fortuna e nella disgrazia, rispetto al voltafaccia generalizzato degli italiani. Forse non a caso, anche per questo le proteste del duce per il comportamento sanguinario della Wehrmacht e di alcuni capi di formazioni fascisti sono blande o del tutto assenti, se non nei mesi più vicini all’epilogo della guerra. Ora, se tutto ciò finisca per confliggere con l’interpretazione defeliciana (tesi sostenuta con forza da Franzinelli), la quale come noto metteva al centro della scena una zona grigia che se certamente non era favorevole al governo di Salò, dall’altro non si esponeva a favore del movimento di Liberazione, è difficile da dire in modo conclusivo. E’ certo che Mussolini, da questi nuovi documenti, non si illudeva più di essere il grande demiurgo, capace comunque di incidere sulle vicende del paese. Resta il fatto che la policrazia della RSI rende complesso capire, indipendentemente dalla percezione personale del duce, quanti fossero i "fedelissimi", o comunque coloro che in nome di una passata adesione, non se la sentivano di passare sul fronte opposto. Per restare al solo dato militare, alla fine della guerra l’entità complessiva delle forze armate di Salò, comprendendo tutte le formazioni e tutte le armi, era di quasi mezzo milione di uomini. Pochi? Tanti? Non è semplice dirlo, almeno a parere nostro.

Gioventù bruciata
Andrea Rizzi, La valle della giovinezza, Vicenza, Cierre, 2012

Sui “Balilla che andarono a Salò” si discute ormai da vent’anni, ossia da quando Carlo Mazzantini, reduce da una giovanile militanza in camicia nera, scrittore di successo e uomo alieno da agiografie nostalgiche, pose la questione in un volume dall’omonimo titolo. Andrea Rizzi, in questo studio, analizza uno degli aspetti più conosciuti della partecipazione attiva dei giovanissimi alla tragica storia della RSI, ossia la vicenda del Campo Dux di Velo d’Astico, dove fra maggio e giugno del 1944 migliaia di adolescenti provenienti dalle organizzazioni giovanili del PFR (le cosiddette “Fiamme Bianche”) ricevettero istruzione militare, inquadrati da ufficiali e sottufficiali della GNR, e venendo al termine di questo percorso formativo inseriti a titolo definitivo nelle forze armate della RSI.
Il lavoro di Andrea Rizzi analizza i fatti con dovizia di particolari e documentazione, osservando che già all’epoca questa iniziativa ebbe una massiccia promozione “mediatica”, tramite la stampa e la propaganda fascista, tanto da contribuire – a parer nostro – alla persistenza nella memoria dei reduci e dei nostalgici di questa esperienza. La ricerca è ricca anche di supporti iconografici, per meglio comprendere dove, come e quando si svolse l’addestramento dell’ultima generazione plasmata dal fascismo. I circa quattromila ragazzi provenienti da tutte le località dell’Italia centro-settentrionale, già ben indirizzati nei loro propositi, per settimane furono istruiti all’uso delle armi e pesantemente indottrinati da istruttori fanatici e spietati, con dinamiche non diverse da quelle che contemporaneamente venivano utilizzate nelle scuole allievi ufficiali della GNR (e bene fa l’autore a rimandare al volume di Antonio Gibelli “il popolo bambino”, che molto si sofferma sul tema del plagio ideologico). Ora, se fin qui la narrazione di Rizzi appare una cronaca ben costruita e dettagliata, il seguito lascia piuttosto perplessi, perché a parte un accenno a chi al termine del Campo Dux fu introdotto in reparti regolari dell’esercito della RSI (e comunque anche su questi bisognerebbe meglio indagare per meglio conoscere gli opachi seguiti di esperienze terminate nelle brigate nere o nella legione “Ettore Muti”), poco o nulla si dice dei tanti che finirono nelle formazioni ausiliarie della Flak tedesca, ossia i gruppi antiaerei dell’aeronautica di Salò. E desta un certo stupore che nulla si dica di cosa avvenne in zone assai vicine a quelle dove si svolse l’ultima grande adunata dei giovani fascisti, ossia il sanguinoso ciclo di rastrellamenti sul monte Grappa, che ebbe come esito ultimo decine di esecuzioni sommarie e di impiccagioni pubbliche agli alberi di Bassano. Come alcuni anni fa ebbe a narrare Sonia Residori nel suo “Il massacro del Grappa” (peraltro edito dallo stesso editore del volume di Rizzi), decine di quei giovanissimi fanatici furono parte attiva di quel rito macabro, tanto da essere ricordati dalla popolazione locale come quelli che, fisicamente, “tirarono i piedi agli impiccati”.
Onestamente non crediamo che l’autore abbia volutamente nascosto una parte così ingombrante e poco confacente alla mitizzazione di quella gioventù bruciata. Certo è che anche questo avvenne, e non farne cenno se non per sommi capi, distorce profondamente il giudizio storico su quei fatti, i quali, a parer nostro dimostrano soprattutto la colpevole spregiudicatezza degli ultimi tragici epigoni dell’esperienza mussoliniana; questi, non diversamente dagli istruttori della “Hitlerjugend” nazista, tanto ammirata dal presidente dell’Opera nazionale balilla Renato Ricci, istruirono una generazione a morire e a uccidere senza pietà fino all’ultimo giorno di guerra. E che anche i “balilla di Salò” fossero capaci di compiere atrocità mostruose, è ampiamente dimostrato, e ci appare sbagliato non parlarne.