La babele delle voci
Paolo Sorcinelli, Otto settembre, Milano, Bruno Mondadori,
2013
Il rischio delle ricerche basate
sulle memorie di coloro che attraversarono i momenti cruciali della nostra
storia, è quello di sortire una specie di effetto “piazza del mercato”: un
insieme indistinto di voci che si rincorrono, e sulle quali ogni tanto si
levano gli strilli dei venditori. Sorcinelli, sia pure con l’abilità del
mestiere, cerca di trarre una morale da questa confusione, purtroppo con scarso
esito, almeno secondo noi. Dimostrare che la maggioranza del paese avesse un
comune sentire antinazista o fosse fermamente intenzionata a difendere in armi
l’integrità della nazione, è secondo noi del tutto aleatorio se ci si basa
soltanto sui frammenti della memoria di ufficiali e soldati, piuttosto che
impiegati o operai; la lettura del volume risulta così talvolta piacevole e
altrove invece piuttosto lenta e frammentaria, a seconda di chi viene scelto
per mettere in evidenza le tesi dell’autore. Il limite della scrittura è quello
poc’anzi riportato: una specie di “juke box” in cui Sorcinelli va a pescare, di
volta in volta, le tesi che paiono maggioritarie, o minoritare. E per dipingere
lo sfondo, in una sorta di piuttosto monotono basso continuo, troviamo due
riferimenti che dall’inizio alla fine dello studio sono di continuo citati e
interpellati: le memorie dell’imprenditore piemontese Carlo Chevallard e della
benestante proprietaria terriera anglosenese Iris Origo, le quali, per ben
scritte e articolate, sono solo una parte del grande puzzle nazionale, e,
secondo noi, nemmeno quella più interessante. Il resto è un affastellarsi di
esperienze che davvero poco aggiungono a quanto già si conosce sul quel tragico
passaggio obbligato della nostra storia nazionale; tralasciamo qui di
aggiungere che in diverse parti del testo si trovano testimonianze romanzate e
non sempre attendibili, su tutte quella del futuro federale della tetra Milano
repubblichina, Vincenzo Costa, che pure è riportata nell’ultima di copertina. Il
lavoro di Sorcinelli risulta quindi buono nelle intenzioni e nei propositi, ma
non sempre all’altezza di quelli che erano gli obiettivi dell’autore.
Immagini del disastro
Marco Gasparini, 8 settembre 1943, Torino, Capricorno,
2013
La storia per immagini del 1943
non è un soggetto inedito; in passato autori accurati come Silvio Bertoldi,
Adolfo Mignemi o Giovanni de Luna si sono soffermati su questo soggetto. Il
lavoro di Gasparini ha però alcuni dettagli che ci sono comunque sembrati
interessanti, o addirittura inediti. I civili italiani hanno ovunque un
immagine deperita e cenciosa: il corteo festante per le vie di Milano dopo
l’annuncio della caduta del regime è significativo; sono tutti ragazzi giovani
o giovanissimi (le classi più adulte erano ovviamente di leva), con un operaio,
forse un muratore, in una tuta da lavoro e con ai piedi delle approssimative
“espadrillas”, che fanno emergere tutto fuorché una sensazione di sicurezza,
specie se, come pare, si tratta di un carpentiere addetto a qualche ponteggio.
La vista in primo piano della nuca del generale Castellano intento a firmare a
Cassibile la nostra resa senza condizioni, rivela un inquietante “riporto”, impietosamente
messo in luce dall’abbondante uso di brillantina, degna cornice di un mondo
destinato a concludersi vergognosamente nel giro di una settimana; l’ufficiale
americano al fianco potrebbe invece essere uno qualsiasi dei militari a stelle
e strisce impegnato oggi in Afghanistan o altrove, tanto appare moderno
nell’espressione e nell’abbigliamento, così come “guerrieri” ci appaiono i parà
tedeschi che combattono contro il regio esercito a Roma, con i terribili
scarponcini di cartone e le fasce mollettiere. E infine un documento che non
avevamo mai visto prima, ossia la pagina su cui Mussolini, in Germania, mise
per iscritto la nascita della repubblica sociale, stilando cinque ordini del
giorno “del regime” (sic); la scrittura nervosa del duce, che pone le basi alla
guerra civile su un foglio quadrettato ha qualcosa di inquietante e assieme
rivelatore: al punto n. 2 il segretario provvisorio del rinato partito fascista
è inserito con una postilla a “v”, perché evidentemente non presente nella
frettolosa redazione. Il nome di Alessandro Pavolini è posticcio: forse davvero
il duce non aveva trovato di meglio…
Settembre silenzioso
Gianni Oliva, L’Italia del silenzio, Milano,
Mondadori, 2013
La riflessione di Gianni Oliva
sull’armistizio, finisce giustamente per allargarsi a una riflessione più
generale sull’eredità di storia e memoria della resistenza italiana, e
sull’influsso che questa pagina di storia ha avuto per costruire una sorta di
grande “autoassoluzione generale”, per impedire a ciascuno di noi di riflettere
su vent’anni di dittatura prima subita e poi in qualche modo partecipate;
l’autore, in questo volume riflette in termini tutt’altro che banali sui
giudizi storici che l’armistizio ha finito per esprimere: la fine del regno
d’Italia, che ebbe qualche spasmo di vitalità nei mesi successivi, ma la cui
fine fu decretata dall’abbandono di Roma da parte di Vittorio Emanuele e di
Pietro Badoglio; la difficile risalita della “nuova Italia” che nacque dalla
rivolta contro gli occupanti tedeschi, in un paese dilaniato dalla guerra
civile, scontro fratricida animato da minoranze tanto decise e convinte nel
proprio agire, quanto circondate da una società che in ogni modo era animata da
un unico obiettivo, ossia sopravvivere alla bufera del conflitto; in ultimo
resta il giudizio tranciante che quelle vicende suscitarono nei nostri
interlocutori esteri, i quali bollarono il nostro paese con giudizi tutt’oggi
difficili da superare, come la nostra generale inaffidabilità o la tendenza
tutta nostrana di schierarsi dalla parte del più forte. Per il “combinato
disposto” di tutti questi motivi, e nonostante lo sforzo (specie degli storici
“embedded” del marxismo nostrale) di trasformare il 25 aprile in una giornata
di memoria nazionale, la parentesi della guerra in casa, della guerra civile e
della lotta di classe di quei mesi è diventato, col passare del tempo, uno dei
tanti appuntamenti istituzionali, non diverso dal 2 giugno o dall’ancor meno
sentito 4 novembre. La scarsa o nulla eco nel dibattito pubblico delle
ricorrenze relative al 70° dell’armistizio parla a volumi di questa noncuranza
nazionale, che solo i ciechi (ideologici) non vedono. La realtà, a parer nostro
ben individuata da Oliva, è che dopo settant’anni l’unico esito concreto di
quel pezzo di storia patria, è stato, oggi più che mai, l’incapacità di fare i
conti con noi stessi.