lunedì 28 luglio 2014

Retroscena del xx secolo

Nicola Guerra, I volontari italiani nelle Waffen SS, Chieti, Solfanelli, 2014

Quali erano le motivazioni di chi, al momento delle scelte successive all’armistizio, fece la scelta radicale e definitiva di proseguire la guerra assieme ai nazisti? Nicola Guerra approfondisce questo argomento con una indagine basata su decine di interviste a reduci italiani delle Waffen SS, offrendo al lettore una panoramica di notevole interesse memorialistico, autentico spaccato di “casi devianti” rispetto al generale sentimento antigermanico presente nel regio esercito.
Va chiarito che l’oggetto dello studio non riguarda la militanza per l’ultimo fascismo (che in qualche caso nemmeno ci fu) ma in modo specifico l’adesione ad un corpo militare tedesco, con il conseguente cambiamento di status personale, da soldato dell’esercito italiano a volontario straniero in una formazione del III Reich; questa condizione era in realtà meno sui generis di quanto si potrebbe ritenere, visto che alle soglie del 1944 le SS erano in pieno “boom” di arruolamenti in tutta Europa, con decine di migliaia di volontari provenienti dal Baltico alla Bosnia e dall’Olanda all’Ucraina, tanto che, come noto, prima della fine della guerra i non-tedeschi finirono per essere una presenza fondamentale nei magri reggimenti che difendevano i confini sempre più angusti del Reich.
In realtà dalla lettura emerge un dato curioso, ossia la non facile definizione del “quid” che ha portato gli intervistati a scegliere Hitler piuttosto che Mussolini. Per molti, infatti, il quadro motivazionale non appare diverso dai volontari di Salò: il “tradimento” dell’8 settembre, la voglia di vendicarsi e rivalersi sui presunti sabotatori dell’Asse, il proseguimento della guerra secondo i fini – assolutamente chiari – della propaganda nazifascista, ossia la sconfitta del cosiddetto sistema “demo-pluto-giudaico” (espressione che torna sulle labbra di diversi ex militi). Poi, andando a scendere nel dettaglio, si scopre qualcosa di più; si scelsero i tedeschi perché “facevano sul serio” (motivo ricorrente),  o perché “c’era cameratismo e non esistevano differenze di trattamento fra soldati e ufficiali” (altro elemento che si rinviene spesso) e infine, in un paio di casi davvero emblematici, si decide di indossare il Feldgrau perché si è stati maltrattati nel regio esercito, specie per episodi di “nonnismo”, e si vuole godere della rivalsa di spedire in vagoni piombati in Germania i propri (presunti) persecutori. Il lavoro, davvero articolato, è meritevole di grande attenzione, in quanto il tema delle scelte in momenti critici della nostra storia, rivela ancora oggi diversi punti oscuri.
  
Giacomo Pacini, Le altre gladio, Torino, Einaudi, 2014

Pacini prosegue con questo volume la sua attenta indagine, scevra di pregiudizi ideologici, sulla nascita e lo sviluppo delle reti segrete anticomuniste in Italia; se dovessimo sottolineare un pregio nella lettura dello studio, è proprio il tono dello scrivere, pacato e lontano dall’enfasi con cui altri ricercatori si sono avvicinati al tema. Questo perché, a parere nostro, un certo tipo di storiografia permeata di ideologismo indignato sta lentamente tramontando, e nel frattempo, grazie ai lavori di studiosi come Victor Zaslavsky e Salvatore Sechi, molto sappiamo (finalmente) su come e quanto il partito comunista italiano appariva minaccioso non solo politicamente ma anche militarmente per l’Italia inquadrata nello scacchiere atlantico.
Osservando la naturale evoluzione delle formazioni partigiane bianche nel Friuli, così come in Lombardia e altrove, le conferme alla teoria – anche nostra – del “continuum” fra guerra e dopoguerra nei mesi successivi al maggio 1945 e almeno fino alla primavera del 1948, ci paiono di difficile smentita. La guerra in Europa, specie nelle zone di confine fra le fragili democrazie occidentali e i paesi già sotto la cortina di ferro, non era finita con la firma su un foglio a Reims, ma proseguiva, sotto altre forme e modalità. Questo era chiaro non soltanto per chi viveva “sul campo” una conflittualità quotidiana e uno stillicidio di violenze politiche, ma anche per chi nelle strutture militari di intelligence rimaste integre al termine del conflitto, aveva compreso la portata delle nuove sfide geopolitiche. Così, in un misto fra spontaneismo, azioni coordinate talvolta con successo e spesso con esiti imprevisti  o fallimentari, la rete segreta “stay behind”  prese forza in tutto il nord Italia, prendendo nomi diversi a seconda delle aree del paese: “organizzazione O”, “Stella alpina” in Friuli, o il “Movimento di avanguardia cattolica (MACI)” in Lombardia. L’autore, correttamente, non trascura di sottolineare le derive – che ci furono, gravi e sanguinose – verso l’estremismo di destra, osservando però come i vertici dell’organizzazione fecero di tutto per evitare che l’eterodirezione fosse un dato sistematico di “Gladio”. Certamente la velenosa miscela di fascisti fanatici, funzionari dei servizi deviati, elementi stranieri tutt’altro che estranei a ingerenze politiche, ci fu; non fu però il tratto distintivo della rete segreta e clandestina. Poi si può obiettare che questo fosse in contrasto con la democrazia nel nostro paese, ma a questo punto occorre essere chiari: era possibile qualcosa di diverso durante quaranta anni di guerra fredda?
Pacini (secondo noi per fortuna) si ferma sulla soglia dei giudizi morali, lasciandoli al lettore, e semmai sottolinea come nonostante per due decenni si sia indagato sul versante politico e giudiziario sulla rete “stay behind”, non si è potuto trovare un nesso causa-effetto fra questa e terrorismo di destra. Forse perché lo scontro era comunque fra le strutture clandestine di una democrazia parlamentare, sia pure sbilenca e imperfetta, e quelle che tiravano acqua al mulino delle democrazie popolari del patto di Varsavia.

Massimiliano Griner, La zona grigia, Milano, Chiarelettere, 2014

Massimiliano Griner sfoglia un album di foto ingiallite, che in diversi avrebbero voluto fare in modo che non fosse più riaperto, e ci propone in lettura scritti e vicende del mondo intellettuale nel quale crebbe e trovò il proprio liquido amniotico il terrorismo rosso; a dire il vero gli avvocati (e purtroppo i magistrati) ispirati da Saint-Just più che da Beccaria, i giornalisti abbeverati alla prosa epilettica del giovane Mussolini, gli intellettuali amanti del sangue (altrui) sono una presenza storica in un paese in cui da cent’anni si legge Sorel e lo si chiama Marx, anche se i picchi di questa ubriacatura collettiva si riduce agli ’70 del secolo scorso. E così nell’album polveroso si rileggono nomi noti e meno noti dell’Italia di allora e di oggi, tutti uniti dal fiero rigetto delle regole democratiche, dall’odio di classe eletto a regola elementare delle relazioni sociali e dalla equidistanza demenziale fra  istituzioni (senz’altro perfettibili e non immuni da inceppi sostanziali)  e l’arcipelago dei gruppuscoli partoriti dalle formazioni della sinistra extraparlamentare, i quali avevano messo in pratica quello che scrivevano in tanti e che cantava Paolo Pietrangeli, ossia “picchiare col martello e affossare il sistema”.
Pagina dopo pagina, li ritroviamo tutti i nomi di coloro che sottoscrissero gli appelli all’uso della forza, e che esprimevano la soddisfazione, nemmeno troppo malcelata, ogni qualvolta venivano massacrati esponenti politici, giornalisti, giudici, dirigenti d’azienda, in quanto rappresentanti del “nemico di classe”, nella visione lunatica e distorta di quella che era la realtà del nostro paese. Una larga maggioranza dei cattivi allievi di pessimi maestri, troveranno una ricollocazione negli anni del riflusso, allontanandosi dalle proprie ubbie giovanili, alcuni in modo talmente abile e raffinato da poter ricomparire, qualche lustro dopo, come opinionisti di successo nella seconda repubblica; tutti ritornati a galla, tutti perdonati, tutti rientrati nel grande meccanismo della società della comunicazione,  e solo di tanto in tanto importunati dall’ira dei congiunti delle vittime di allora, a cui in genere hanno rivolto talvolta pensieri di presunta commozione e più spesso espressioni di scocciato distacco.
E’ doveroso ringraziare l’autore per aver riaperto l’album dell’orrore, non fosse altro perché i cascami di quella stagione di inutile furore continuano evidentemente ad essere affascinanti per alcuni “maitre a pensèr” contemporanei, i quali, come Roberto Saviano, ritengono che Cesare Battisti sia un colto intellettuale, perseguitato dalla giustizia per alcuni veniali peccati di gioventù.   

Luciano Mecacci, La Ghirlanda fiorentina, Milano, Adelphi, 2014

L’autore, pur non essendo un ricercatore storico di professione, ci offre quello che, probabilmente, è il lavoro definitivo sulle circostanze che portarono all’uccisione di Giovanni Gentile; una indagine ampia e documentata, nella quale tutto è attraversato da una sgradevole sensazione, ossia che grattando poco sotto le versioni ufficiali (plurale, perché di “versioni ufficiali” ce ne furono diverse in momenti successivi) emergano fatti ed elementi ignorati o poco approfonditi per settanta anni, quasi che andasse bene a tutti la superficiale conoscenza di quello che fu invece un evento traumatico per la cultura del nostro paese. La “ghirlanda” che da il titolo al volume, è un album di pensieri e fotografie dell’italianista John Purves, curiosa figura a cavallo fra l’accademia e i servizi segreti britannici, il quale nel suo lungo soggiorno fiorentino, ebbe a che fare con l’intellighenzia della città gigliata, legando a sé i personaggi che comunque ebbero un ruolo nella cruenta fine del filosofo di Castelvetrano. Poco alla volta, in una analisi articolata e ricca di dettagli inediti (ad esempio la poco edificante vicenda dei reperti “taroccati” raccolti sulla scena del delitto), si capisce quanto facesse comodo a tutti, fascisti e antifascisti, tedeschi, inglesi e italiani, la scomparsa di Gentile dalla scena politica e sociale dell’Italia attraversata dal conflitto mondiale.
Mecacci non si esprime in modo definitivo sugli autori materiali e sui mandanti dell’esecuzione, facendo semmai comprendere come molti fatti assodati in realtà non lo siano per nulla: il numero dei “gappisti” (ammesso che fossero tali) del commando, chi prese le decisioni operative, chi partecipò offrendo la propria disponibilità a nascondere gli autori dell’azione, immaginando che così facendo avrebbe risciacquato la propria immagine pubblica per presentarsi in modo (più o meno) immacolato per il dopoguerra ormai prossimo. In un gioco di specchi in cui non sempre è semplice districarsi, ci sono però rimaste impresse alcune immagini significative, presenti nell’appendice fotografica, su tutte il corteo funebre di Giovanni Gentile; dietro al feretro c’è una sola autorità in camicia nera: Alessandro Pavolini. Gli altri sono in grisaglia, compresa la sparutissima pattuglia governativa, in rappresentanza del decaduto duce di Salò; non un milite, non un truce fascista della banda Carità, ma semmai un folto gruppo di carabinieri, che – osservando i volti – preferirebbero probabilmente essere altrove.
Insomma “triste, solitario y final”, un congedo nell’indifferenza praticamente totale di una città i cui abitanti, come altrove nell’Italia occupata, cercavano soprattutto di mettere assieme pranzo e cena.