Nicola Guerra, I volontari italiani nelle Waffen SS, Chieti,
Solfanelli, 2014
Quali erano le
motivazioni di chi, al momento delle scelte successive all’armistizio, fece la
scelta radicale e definitiva di proseguire la guerra assieme ai nazisti? Nicola
Guerra approfondisce questo argomento con una indagine basata su decine di
interviste a reduci italiani delle Waffen SS, offrendo al lettore una
panoramica di notevole interesse memorialistico, autentico spaccato di “casi
devianti” rispetto al generale sentimento antigermanico presente nel regio
esercito.
Va chiarito che
l’oggetto dello studio non riguarda la militanza per l’ultimo fascismo (che in
qualche caso nemmeno ci fu) ma in modo specifico l’adesione ad un corpo
militare tedesco, con il conseguente cambiamento di status personale, da
soldato dell’esercito italiano a volontario straniero in una formazione del III
Reich; questa condizione era in realtà meno sui generis di quanto si potrebbe
ritenere, visto che alle soglie del 1944 le SS erano in pieno “boom” di
arruolamenti in tutta Europa, con decine di migliaia di volontari provenienti
dal Baltico alla Bosnia e dall’Olanda all’Ucraina, tanto che, come noto, prima
della fine della guerra i non-tedeschi finirono per essere una presenza
fondamentale nei magri reggimenti che difendevano i confini sempre più angusti
del Reich.
In realtà dalla
lettura emerge un dato curioso, ossia la non facile definizione del “quid” che
ha portato gli intervistati a scegliere Hitler piuttosto che Mussolini. Per
molti, infatti, il quadro motivazionale non appare diverso dai volontari di
Salò: il “tradimento” dell’8 settembre, la voglia di vendicarsi e rivalersi sui
presunti sabotatori dell’Asse, il proseguimento della guerra secondo i fini –
assolutamente chiari – della propaganda nazifascista, ossia la sconfitta del
cosiddetto sistema “demo-pluto-giudaico” (espressione che torna sulle labbra di
diversi ex militi). Poi, andando a scendere nel dettaglio, si scopre qualcosa
di più; si scelsero i tedeschi perché “facevano sul serio” (motivo
ricorrente), o perché “c’era cameratismo
e non esistevano differenze di trattamento fra soldati e ufficiali” (altro
elemento che si rinviene spesso) e infine, in un paio di casi davvero
emblematici, si decide di indossare il Feldgrau perché si è stati maltrattati
nel regio esercito, specie per episodi di “nonnismo”, e si vuole godere della
rivalsa di spedire in vagoni piombati in Germania i propri (presunti)
persecutori. Il lavoro, davvero articolato, è meritevole di grande attenzione,
in quanto il tema delle scelte in momenti critici della nostra storia, rivela
ancora oggi diversi punti oscuri.
Giacomo Pacini, Le altre gladio, Torino, Einaudi, 2014
Pacini prosegue con
questo volume la sua attenta indagine, scevra di pregiudizi ideologici, sulla
nascita e lo sviluppo delle reti segrete anticomuniste in Italia; se dovessimo
sottolineare un pregio nella lettura dello studio, è proprio il tono dello
scrivere, pacato e lontano dall’enfasi con cui altri ricercatori si sono
avvicinati al tema. Questo perché, a parere nostro, un certo tipo di
storiografia permeata di ideologismo indignato sta lentamente tramontando, e
nel frattempo, grazie ai lavori di studiosi come Victor Zaslavsky e Salvatore
Sechi, molto sappiamo (finalmente) su come e quanto il partito comunista
italiano appariva minaccioso non solo politicamente ma anche militarmente per
l’Italia inquadrata nello scacchiere atlantico.
Osservando la naturale
evoluzione delle formazioni partigiane bianche nel Friuli, così come in
Lombardia e altrove, le conferme alla teoria – anche nostra – del “continuum”
fra guerra e dopoguerra nei mesi successivi al maggio 1945 e almeno fino alla
primavera del 1948, ci paiono di difficile smentita. La guerra in Europa,
specie nelle zone di confine fra le fragili democrazie occidentali e i paesi
già sotto la cortina di ferro, non era finita con la firma su un foglio a
Reims, ma proseguiva, sotto altre forme e modalità. Questo era chiaro non
soltanto per chi viveva “sul campo” una conflittualità quotidiana e uno
stillicidio di violenze politiche, ma anche per chi nelle strutture militari di
intelligence rimaste integre al termine del conflitto, aveva compreso la
portata delle nuove sfide geopolitiche. Così, in un misto fra spontaneismo,
azioni coordinate talvolta con successo e spesso con esiti imprevisti o fallimentari, la rete segreta “stay behind”
prese forza in tutto il nord Italia,
prendendo nomi diversi a seconda delle aree del paese: “organizzazione O”,
“Stella alpina” in Friuli, o il “Movimento di avanguardia cattolica (MACI)” in
Lombardia. L’autore, correttamente, non trascura di sottolineare le derive –
che ci furono, gravi e sanguinose – verso l’estremismo di destra, osservando però
come i vertici dell’organizzazione fecero di tutto per evitare che
l’eterodirezione fosse un dato sistematico di “Gladio”. Certamente la velenosa
miscela di fascisti fanatici, funzionari dei servizi deviati, elementi
stranieri tutt’altro che estranei a ingerenze politiche, ci fu; non fu però il
tratto distintivo della rete segreta e clandestina. Poi si può obiettare che
questo fosse in contrasto con la democrazia nel nostro paese, ma a questo punto
occorre essere chiari: era possibile qualcosa di diverso durante quaranta anni
di guerra fredda?
Pacini (secondo noi
per fortuna) si ferma sulla soglia dei giudizi morali, lasciandoli al lettore,
e semmai sottolinea come nonostante per due decenni si sia indagato sul
versante politico e giudiziario sulla rete “stay behind”, non si è potuto
trovare un nesso causa-effetto fra questa e terrorismo di destra. Forse perché
lo scontro era comunque fra le strutture clandestine di una democrazia
parlamentare, sia pure sbilenca e imperfetta, e quelle che tiravano acqua al
mulino delle democrazie popolari del patto di Varsavia.
Massimiliano Griner, La zona grigia, Milano, Chiarelettere,
2014
Massimiliano Griner
sfoglia un album di foto ingiallite, che in diversi avrebbero voluto fare in
modo che non fosse più riaperto, e ci propone in lettura scritti e vicende del
mondo intellettuale nel quale crebbe e trovò il proprio liquido amniotico il
terrorismo rosso; a dire il vero gli avvocati (e purtroppo i magistrati) ispirati
da Saint-Just più che da Beccaria, i giornalisti abbeverati alla prosa
epilettica del giovane Mussolini, gli intellettuali amanti del sangue (altrui)
sono una presenza storica in un paese in cui da cent’anni si legge Sorel e lo
si chiama Marx, anche se i picchi di questa ubriacatura collettiva si riduce
agli ’70 del secolo scorso. E così nell’album polveroso si rileggono nomi noti
e meno noti dell’Italia di allora e di oggi, tutti uniti dal fiero rigetto
delle regole democratiche, dall’odio di classe eletto a regola elementare delle
relazioni sociali e dalla equidistanza demenziale fra istituzioni (senz’altro perfettibili e non
immuni da inceppi sostanziali) e l’arcipelago
dei gruppuscoli partoriti dalle formazioni della sinistra extraparlamentare, i
quali avevano messo in pratica quello che scrivevano in tanti e che cantava
Paolo Pietrangeli, ossia “picchiare col martello e affossare il sistema”.
Pagina dopo pagina, li
ritroviamo tutti i nomi di coloro che sottoscrissero gli appelli all’uso della
forza, e che esprimevano la soddisfazione, nemmeno troppo malcelata, ogni
qualvolta venivano massacrati esponenti politici, giornalisti, giudici,
dirigenti d’azienda, in quanto rappresentanti del “nemico di classe”, nella
visione lunatica e distorta di quella che era la realtà del nostro paese. Una
larga maggioranza dei cattivi allievi di pessimi maestri, troveranno una
ricollocazione negli anni del riflusso, allontanandosi dalle proprie ubbie
giovanili, alcuni in modo talmente abile e raffinato da poter ricomparire, qualche
lustro dopo, come opinionisti di successo nella seconda repubblica; tutti
ritornati a galla, tutti perdonati, tutti rientrati nel grande meccanismo della
società della comunicazione, e solo di
tanto in tanto importunati dall’ira dei congiunti delle vittime di allora, a
cui in genere hanno rivolto talvolta pensieri di presunta commozione e più
spesso espressioni di scocciato distacco.
E’ doveroso
ringraziare l’autore per aver riaperto l’album dell’orrore, non fosse altro
perché i cascami di quella stagione di inutile furore continuano evidentemente ad
essere affascinanti per alcuni “maitre a pensèr” contemporanei, i quali, come
Roberto Saviano, ritengono che Cesare Battisti sia un colto intellettuale,
perseguitato dalla giustizia per alcuni veniali peccati di gioventù.
Luciano
Mecacci, La Ghirlanda fiorentina, Milano, Adelphi, 2014
L’autore,
pur non essendo un ricercatore storico di professione, ci offre quello che,
probabilmente, è il lavoro definitivo sulle circostanze che portarono
all’uccisione di Giovanni Gentile; una indagine ampia e documentata, nella
quale tutto è attraversato da una sgradevole sensazione, ossia che grattando
poco sotto le versioni ufficiali (plurale, perché di “versioni ufficiali” ce ne
furono diverse in momenti successivi) emergano fatti ed elementi ignorati o
poco approfonditi per settanta anni, quasi che andasse bene a tutti la
superficiale conoscenza di quello che fu invece un evento traumatico per la
cultura del nostro paese. La “ghirlanda” che da il titolo al volume, è un album
di pensieri e fotografie dell’italianista John Purves, curiosa figura a cavallo
fra l’accademia e i servizi segreti britannici, il quale nel suo lungo
soggiorno fiorentino, ebbe a che fare con l’intellighenzia della città
gigliata, legando a sé i personaggi che comunque ebbero un ruolo nella cruenta
fine del filosofo di Castelvetrano. Poco alla volta, in una analisi articolata
e ricca di dettagli inediti (ad esempio la poco edificante vicenda dei reperti
“taroccati” raccolti sulla scena del delitto), si capisce quanto facesse comodo
a tutti, fascisti e antifascisti, tedeschi, inglesi e italiani, la scomparsa di
Gentile dalla scena politica e sociale dell’Italia attraversata dal conflitto
mondiale.
Mecacci
non si esprime in modo definitivo sugli autori materiali e sui mandanti
dell’esecuzione, facendo semmai comprendere come molti fatti assodati in realtà
non lo siano per nulla: il numero dei “gappisti” (ammesso che fossero tali) del
commando, chi prese le decisioni operative, chi partecipò offrendo la propria
disponibilità a nascondere gli autori dell’azione, immaginando che così facendo
avrebbe risciacquato la propria immagine pubblica per presentarsi in modo (più
o meno) immacolato per il dopoguerra ormai prossimo. In un gioco di specchi in
cui non sempre è semplice districarsi, ci sono però rimaste impresse alcune immagini
significative, presenti nell’appendice fotografica, su tutte il corteo funebre
di Giovanni Gentile; dietro al feretro c’è una sola autorità in camicia nera:
Alessandro Pavolini. Gli altri sono in grisaglia, compresa la sparutissima
pattuglia governativa, in rappresentanza del decaduto duce di Salò; non un
milite, non un truce fascista della banda Carità, ma semmai un folto gruppo di
carabinieri, che – osservando i volti – preferirebbero probabilmente essere
altrove.
Insomma
“triste, solitario y final”, un congedo nell’indifferenza praticamente totale
di una città i cui abitanti, come altrove nell’Italia occupata, cercavano soprattutto
di mettere assieme pranzo e cena.