giovedì 30 ottobre 2014

sangue e piombo

Sangue in piazza
Pino Casamassima, Piazza Loggia, Milano, Sperling&Kupfer, 2014

Le storie delle stragi italiane hanno tutte un unico canovaccio, un elemento paradossale che in fondo lascia sgomenti: le ricostruzioni, con il passare del tempo, invece che apparire sempre più stringenti, precise e analitiche,  procedono al contrario, ossia si inizia con studi particolareggiati, a cui seguono analisi sfumate, sino ad una specie di indistinto marasma generale, in cui non si riesce più a capire  chi ha fatto cosa, e come. Casamassima cerca, con passione civile, documentazione inedita, ed evidente fatica personale, di risalire la corrente e procedere in senso contrario, riuscendo a raggiungere diversi punti fermi sui quali ancorare i dati di fatto non contestabili e certi. Lo sforzo è però immane, non fosse altro perché la traccia principale si fissa su vicende processuali, contorte, discontinue e divergenti. Ad un certo punto l’unica cosa certa appare il deflagrare della bomba e i poveri cadaveri sconciati rimasti sul selciato della piazza bresciana, imperdonabilmente ripulita a poche ore dall’eccidio, cancellando prove e tracce per le indagini successive. Poi entra in scena un gruppo di sbandati, alcuni dei quali autentici “borderline” che vengono sfruttati – alcuni anche abusati sessualmente – da Ermanno Buzzi, bon vivant con l’hobby della ricettazione di opere d’arte e frequentatore degli ambienti della destra radicale lombarda e veneta. Una improbabile compagnia che sa e non sa, ma che poco c’entra con chi, di persona, aveva posizionato l’ordigno sotto il loggiato, ossia qualcuno vicino alle frequentazioni di Silvio Ferrari, giovane estremista di destra saltato in aria con una bomba, “l’altra bomba” di cui poco si è scritto; una deflagrazione finalmente studiata con dovizia di dettagli, avvenuta forse per dolo, forse per disattenzione, forse volontariamente, per mettere in silenzio uno scomodo testimone di trame opache: l’altro testimone scomodo, Ermanno Buzzi, finirà in modo cruento i suoi giorni nel carcere di Novara, messo a tacere per sempre da “camerati” a loro volta custodi di segreti inconfessabili. Ci sono anche altri attori, anche essi specchio di un paese in cui alle fedeltà ufficiali, verso la nazione e la repubblica, si sovrappongono le fedeltà di schieramento atlantico e di vicinanza ai servizi e ai loro disegni non sempre intellegibili; il futuro generale dei carabinieri Francesco Delfino lascia pesanti ombre sul suo operato, non diversamente dalla variegata congerie di partigiani bianchi e reduci neri come Carlo Fumagalli o Ezio Tartaglia. Dietro a queste storie, che iniziano con chiarezza e terminano nella babele delle ipotesi, restano le vittime, i feriti e i loro congiunti, da quaranta anni in attesa di una parola definitiva da parte di una giustizia spesso incomprensibile:  tribunali lontani fra loro, giudici in conflitto, pubblici ministeri giunti a conclusioni perentorie e opposte a distanza di decenni. Chiunque si occupi di storia del nostro paese in modo scientifico deve quindi avere un debito di riconoscenza con Casamassima, perché lascia un solido elemento di studio per chiunque, in futuro, vorrà avvicinarsi a quel sanguinoso capitolo delle vicende nazionali. Purtroppo temiamo che ormai solo la storia potrà rendere giustizia a quei poveri morti.

La violenza dei bianchi
Guido Panvini, Cattolici e violenza politica, Venezia, Marsilio, 2014

Guido Panvini, già autore di innovativi saggi sulla violenza politica nel nostro paese, si sofferma sulle inquietudini all’interno del mondo cattolico nel decisivo quarto di secolo che va dalla fine del secondo conflitto mondiale alla fine degli anni ‘70, stagione influenzata prima dall’incrudirsi della guerra fredda e successivamente dalla svolta epocale giunta con il Concilio vaticano II; queste ed altre cause contingenti – la congiuntura politico economica del paese dopo gli anni del boom  e le grandi turbolenze della società occidentale che seguirono il 1968 – finirono per condurre elementi estremisti (o “integristi” come precisa giustamente l’autore) nelle formazioni del terrorismo nero e rosso, ossia a impugnare le armi per giungere alla distruzione dello stato e delle sue istituzioni democratiche e imporre regimi di colore opposto, ma ispirati a una visione distorta del proprio vissuto religioso. Così Panvini torna sulle tracce delle reti clandestine armate vicine alla DC studiate da Giacomo Pacini, nate alla vigilia delle decisive elezioni politiche dell’aprile 1948 che successivamente, con forme e nomi diversi, confluirono nella rete “stay behind”. L’analisi dell’autore si prolunga sino alle ultime propaggini di questa zona d’ombra, ossia il movimento di azione rivoluzionaria di Carlo Fumagalli, che ebbe mai chiarite implicazioni nella stagione stragista; la ricerca conferma inoltre una presenza abbondante di cattolici che intendevano la guerra al comunismo come un conflitto da combattere necessariamente “armi in pugno”, sino alle estreme conseguenze. A nostro parere, questa parte del volume forse, non spiega in modo adeguato le motivazioni concrete di un certo anticomunismo viscerale e inscalfibile, ossia la violenza sistematica che si riversò sul mondo cattolico in molte regioni italiane. Ci pare un po’ semplicistico liquidare con un accenno in nota la questione complessa e articolata dell’apparato comunista clandestino (che peraltro appare successivamente nello studio come brodo di coltura del terrorismo rosso alla fine degli anni ’60) specie considerando la sequenza di uccisioni di attivisti, amministratori e sacerdoti avvenute in Emilia e Romagna fino alla vigilia delle elezioni del 1948. Purtroppo senza citare questi episodi, e senza dettagliare, ad esempio, la caotica situazione di Trieste e della Venezia Giulia, pare davvero che una parte non trascurabile del mondo cattolico facesse la guerra ai propri fantasmi ideologici. Così non fu, purtroppo. Di rilevante interesse anche l’indagine sulla quantità (e la qualità) dei giovani che, ispirati dai sacerdoti-guerriglieri sudamericani, decisero di iniziare la lotta armata contro le istituzioni democratiche del nostro paese, nella convinzione che l’Italia degli anni ’70 fosse una sorta di Bolivia di Hugo Banzer o di Brasile di Castelo Branco; va sottolineato comunque che attivisti e sostenitori del terrorismo rosso sostennero scelte radicali e violente sospinti da un “integrismo” non diverso da quello ispiratore dei loro uguali-opposti delle organizzazioni nere. Fatte salve le precedenti perplessità, lo studio di Panvini contribuisce a colmare un vuoto, e a fare comprendere come le sfumature siano state la regola, e non l’eccezione nella storia del nostro paese dal dopoguerra a oggi. 

L’altra parte
Giampaolo Beligni, Formato tessera, Roma, Robin edizioni, 2014

Nel fiume di pubblicazioni relative agli anni di piombo, la memorialistica e la narrativa svolgono ancora oggi la parte da leone, eppure i racconti di chi visse gli anni ’70 dalla parte delle forze dell’ordine sono a tutt’oggi relativamente pochi; Beligni, che fu poliziotto a Milano nei momenti peggiori di quella stagione non lieta del nostro paese, ci racconta in modo piano e senza enfasi, la sua esperienza giovanile, con riflessioni non banali su quei giorni e quel tempo drammatico. L’ambiente della questura milanese, gli incontri e gli scontri con colleghi e superiori prima ancora che con la piazza, sono forse il dato più originale dello scritto: una “inner story” che spiega bene le motivazioni degli uomini della polizia, in un periodo in cui il solo portare la divisa poteva essere ragione per diventare oggetto di violenza indiscriminata. In questa storia non ci sono santi, non ci sono eroi – anche chi potrebbe essere dipinto come tale viene invece tratteggiato con disincantata umanità – e i fanatici, prevedibilmente, sono una ristretta minoranza. Crediamo non sia una rappresentazione zuccherosa di quei giorni; certamente la politica della violenza ideologica esacerbava gli animi, ma a quanto dice l’autore, e non ci sono motivi per non credergli, davvero i poliziotti che picchiavano per il gusto di picchiare, ossia che erano “fascisti” nell’accezione della sinistra di piazza, erano davvero pochi. E perlopiù isolati dal gruppo. Gli episodi narrati, le frequentazioni fuori dal mondo di via Fatebenefratelli sono anch’esse di notevole interesse, con un quadro che restituisce bene il grigiore diffuso e la cappa di piombo che pesava sul capoluogo lombardo; l’intossicazione di quelle esistenze è probabilmente l’altra sorpresa del volume, l’altro “non detto” di chi visse in uniforme la seconda metà degli anni ’70. A nemmeno trent’anni, Beligni è un reduce, sballottato da una questura all’altra, con lunghi soggiorni professionali in una Sicilia che inizia a vivere i prodromi dell’aggressione sistematica della mafia allo stato; varrebbe la pena chiedersi quanti altri giovani, senza nessun tipo di assistenza psicologica, dopo essere sopravvissuti alle pallottole rosse (e nere) si trovarono a dover affrontare un “dopo” senza gloria, senza onori, e senza nessun tipo di riconoscimento, ne’ istituzionale, ne’ – va detto – da parte dell’opinione pubblica e della memoria collettiva. Riteniamo che questo sia un vulnus ancora aperto, solo parzialmente colmato, in tempi recenti, dall’istituzione della giornata dedicata alle vittime del terrorismo. L’autore ebbe vicende personali e familiari travagliate e infelici, riuscendo soltanto negli ultimi anni, come, operatore in una comunità per tossicodipendenti, a trovare una serenità non solo apparente ma sostanziale, che emerge soprattutto nelle pagine conclusive del volume. “Formato tessera” è quindi un’opera per la quale occorre essere grati a Beligni, e che potrebbe – e dovrebbe – essere di stimolo per nuove e più approfondite ricerche sulla storia delle forze dell’ordine del nostro paese.