Propaganda del novecento
War and propaganda in the XX
Century (a cura di Maria Fernanda Rollo, Ana Paula Pires, Noemia Malva
Novais), Lisboa, IHC, 2013.
Il volume in questione raccoglie gli atti di un
convegno internazionale svoltosi lo scorso ottobre a Lisbona, incentrato sullo
sviluppo esponenziale della propaganda come strumento bellico avvenuto nel XX
secolo principalmente in Europa, ma con un occhio di riguardo anche alle lotte per
l’emancipazione delle colonie africane; nella raccolta di studi, alcuni aspetti
ci sono sembrati particolarmente innovativi: l’analisi su come le nazioni in
guerra svilupparono azioni informative (o disinformative) negli stati neutrali
sia nel primo che nel secondo conflitto mondiale, argomento che ci ha stupito
soprattutto per la mole di energie che venne spesa da tutte le parti in causa
per dipingere favorevolmente la propria immagine nei confronti di chi non
appoggiava apertamente alcun contendente, ma rappresentava comunque un
interlocutore politico ed economico. L’obiettivo delle analisi è focalizzato
soprattutto sulla penisola iberica, ma non per questo l’esperienza di Spagna e
Portogallo ci pare eccessiva, considerando il peso che ebbero le scelte di
campo di entrambi i paesi, soprattutto nella fase conclusiva dell’ultima guerra
mondiale. In seconda battuta alcuni aspetti della propaganda per il fronte
interno rivelano nuove sfaccettature, come l’importanza nella creazione della
“mitologia degli eroi”, obiettivo raggiunto da alcune nazioni impegnate nello
sforzo bellico o totalmente fallito da altre, indipendentemente dall’esito
favorevole o meno del conflitto, così come la speculare necessità di
disumanizzare il nemico interno ed esterno (ci si permetta in merito di
segnalare l’intervento del nostro Federico Ciavattone sulla costruzione
dell’immagine del “fuorilegge” nella RSI). Anche passando oltre alla pure
interessante sezione dedicata allo sforzo artistico e di design in favore delle
nazioni impegnate in guerra, ci si lasci concludere con un sincero
apprezzamento per la spassionata indagine sui conflitti sanguinosi che
coinvolsero il Portogallo in Angola e Mozambico, corredati da una interessante
appendice iconografica sui materiali propagandistici dei fronti indipendentisti
e delle forze armate portoghesi. Possiamo solo augurarci che, prima o poi,
anche il nostro paese possa affrontare in modo equilibrato e allo stesso tempo
indipendente e critico la stagione che ci coinvolse come potenza occupante nel
continente africano. Purtroppo, almeno per ora, questo tipo di indagine è
confinato a studi che, ancora oggi, risultano settoriali, e non dello stesso
ampio respiro che abbiamo riscontrato in questa opera collettanea davvero di
gran pregio.
Il martirio a oriente
La Chiesa cattolica
dell’Europa centro-orientale di fronte al comunismo (a cura di Andrai
Fejerdy), Roma, Viella, 2013.
Le storie esplorate in questo
lavoro collettaneo, meritoriamente edito grazie al Pontificio istituto
ecclesiastico ungherese e al Ministero per le risorse umane magiaro, sono
straordinariamente dolorose e allo stesso tempo misconosciute. La coesistenza (perché
di convivenza non si può parlare) fra le dittature comuniste e la chiesa
cattolica, è ricostruita in un mosaico tragico e spesso sanguinoso, dalle rive
del mar Baltico a quelle dell’Adriatico; ognuna delle nazioni europee che non
ebbero dalla geografia un aiuto sufficiente per ripararsi dalle ideologie
omicide, ha lasciato alle generazioni successive un pegno di autentico martirio
per mantenere e tramandare la propria fedeltà a usi e costumi di una civiltà millenaria.
La riflessione che ci è sovvenuta leggendo i saggi proposti nel volume è,
almeno per quanto ci riguarda, un “mea culpa” senza attenuanti; la nostra
generazione di studiosi avrebbe dovuto già decenni fa squarciare il velo del
tempio del conformismo, maschera grottesca che nulla a che fare con il rispetto
per l’equidistanza e l’obiettività, e raccontare per filo e per segno le cose
per come andarono a est della cortina di ferro: le dittature marxiste furono
costruite su un odioso e sistematico sistema distruttivo dei culti e delle
tradizioni che univano nazioni diverse, ma strettamente legate a vicende
comuni, al fine di imporre un ordine nuovo basato sulla persecuzione delle
libertà civili e religiose. In Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania,
Jugoslavia il clero cattolico (e non solo) fu sottoposto a vessazioni e
umiliazioni, secondo un copione tanto simile da apparire studiato a tavolino da
regie che non erano occulte e neppure troppo raffinate; requisizioni di beni e
immobili, processi farsa, carcere e uccisioni, ridussero a un silenzio pressoché
tombale l’azione pubblica dei pastori, mentre i fedeli furono in ogni modo
mortificati. Se un errore venne commesso da parte dei vertici delle chiese che
si trovavano dalla parte sbagliata dei confini costruiti a Yalta, esso fu
l’ottimismo con cui si considerò, per tutti gli anni ’50, il comunismo, ossia
un periodo transitorio, e non un giogo feroce destinato a durare per lustri.
L’Ostpolitik vaticana divenne una necessità impossibile da procrastinare, anche
se contristò uomini di chiesa dalla schiena diritta e dalla fede non vacillante,
i quali lasciarono testimonianze di fedeltà ai valori cristiani degne di
riflessione anche per gli scettici fedeli della fortunata, sazia e disperata
Europa occidentale. Non si può che esprimere gratitudine per tutti gli autori
coinvolti (fra i quali ci si lasci segnalare Stefano Bottoni, che ci lascia una
ulteriore prova di padronanza delle vicende magiare e rumene) i quali, in modo
piano e documentato, ci lasciano un affresco di dolorosa perseveranza.
Tra complessità e luoghi
comuni
Religione e politica in Italia
dal Risorgimento al Concilio vaticano II (a cura di Sara Alimenti e
Francesca Chiaretto), Torino, Aragno, 2013
Gli atti di questo convegno,
organizzato dalla fondazione Luigi Salvatorelli, risentono in modo
significativo della particolare temperie del periodo, l’ultimo scorcio del
2008, in cui era al culmine la stagione di polemiche fra le forze politiche
laiche e la Conferenza episcopale italiana, nella quale Angelo Bagnasco aveva
appena sostituito Camillo Ruini. La raccolta ha quindi un duplice valore:
quello legato agli interventi dei partecipanti ai lavori svoltisi a Marsciano,
diversi dei quali di notevole interesse storico, e la testimonianza
–trasversale e generalizzata – di una non lieta temperie di polemica intellettuale
spesso ancorata su cliché tardo ottocenteschi, poco rispettosi delle diverse sensibilità
pure presenti all’interno del mondo accademico. La ricostruzione del complesso
itinerario relazionale fra il Vaticano, il mondo cattolico, quello laico e il
governo del paese, risulta quindi accidentata e conflittuale a seconda di chi
ha affrontato i vari temi oggetto dello studio; la laicizzazione della scuola
voluta dopo l’unità d’Italia è osservata come una conquista sociale quando rappresentò
pure una dolorosa cesura col passato in molte regioni italiane, così come il
“declino” di questa particolare declinazione educativa è letto come una sorta
di retrocessione della civiltà del paese, senza attenzione ai risultati ultimi,
ossia l’effettiva funzionalità dei percorsi scolastici. La dicotomia fra
interpretazioni ci è apparsa davvero eccessiva nell’analisi della stagione a
cavallo fra regime fascista, resistenza e dopoguerra; gli interventi sono
uniformi e animati in modo prevalente da polemica anticlericale spesso
spicciola e faziosa: la chiesa al fianco della dittatura, assente nella
stagione della resistenza (da partecipanti ai lavori abbiamo cercato, a quanto
pare piuttosto inutilmente, di dimostrare come senza l’apporto maggioritario
del clero, in ben poche località del nord Italia il movimento di liberazione
avrebbe potuto sopravvivere alla persecuzione nazista e fascista) e dalla parte
sbagliata nel dopoguerra, se non addirittura connivente con le mafie. I rilievi
qui esposti, sia chiaro, non intendono sminuire il valore degli studi presenti
nell’opera. Ci si limita a constatare come l’intera intonazione della raccolta
sia una sintesi degli errori dalla chiesa cattolica del nostro paese, senza però
riflessioni critiche sulle forze interlocutrici, che pure ebbero un peso
rilevante nell’incrudirsi delle relazioni fra le parti, specie nel XX secolo.
Ci si lasci infine dire che se ancora oggi è fonte di irritazione per certo
mondo intellettuale “l’anticomunismo” del mondo cattolico nel secondo
dopoguerra, a parer nostro significa che c’è ancora una china assai lunga da
risalire per ristabilire torti e ragioni di quella scelta di campo, che fu
tanto inequivocabile quanto necessaria, in assenza di parti politiche che
potessero rappresentare in ambito progressista, qualcosa di minimamente simile
al riformismo nato e sviluppatosi in quasi tutto il resto dell’Europa
occidentale.