lunedì 24 ottobre 2016

tribunali di guerra e tribunali della storia

Da uno stereotipo all’altro?
Massimo Castoldi (a cura di), 1943-1945 I bravi e i cattivi, Milano, Donzelli, 2016

La raccolta di saggi su fascismo e nazismo curata da Massimo Castoldi, se da un lato presenta un interessante confronto fra esperienze diverse di promozione della memoria storica in Italia e in Germania, dall’altro lascia al lettore una sensazione abbastanza sconfortante: sembra infatti che si sia passati da una visione edulcorata e autoassolutoria del “buon italiano” contrapposto al “cattivo tedesco” a una rappresentazione delle nostre forze armate squilibrata in senso opposto, ossia come rapaci strumenti offensivi ai danni popolazioni inermi e pacifiche. Certamente la Germania degli ultimi decenni, specie nel periodo post unificazione, rappresenta un modello europeo a cui fare riferimento per proporre gli snodi del proprio ingombrante passato, come si legge nelle riflessioni di Thomas Altmeyer; detto questo, a parer nostro, occorrerebbe iniziare a spostare il dibattito italiano oltre le posizioni rappresentate da Filippo Focardi, perché il paragone fra due organizzazioni militari totalmente diverse, come la Wehrmacht e l’esercito regio, non regge. Esistono a parer nostro punti di unione, ma anche radicali differenze, forse invece non abbastanza sottolineate da coloro che insistono nel parlare di congiura del silenzio sui crimini fascisti. A settanta anni dalla fine della guerra, inoltre, pare incredibile come non esistano studi comparati fra il comportamento dei nostri soldati e gli altri che combatterono sotto le bandiere dell’Asse, come ungheresi e romeni, entrambe potenze occupanti sia nei Balcani che in Urss. Raoul Pupo, fortunatamente, raddrizza la rotta del volume, confermando la necessità di un approccio che prenda atto di articolazioni non lineari, specie quando esistono memorie conflittuali stratificate addirittura da secoli, come nel caso del litorale adriatico; la complessità, peraltro, è la chiave di lettura del contributo redatto da Luigi Ganapini, dedicato al ricordo dell’armistizio nella diaristica italiana, da cui emerge lo sbando di tutti coloro che si trovarono ad affrontare il collasso della nazione: dipingere oggi con i toni del bianco e nero una stagione che fu poco comprensibile per gli attori che la affrontarono in prima persona, a parere nostro, è un esercizio abbastanza sterile di “senno del poi”. Paolo Jedlowski torna infine sul refrain del volume, insistendo nuovamente sulle nostre difficoltà di auto rappresentazione, questa volta in ambito cinematografico, riesumando vicende notissime come quella del progetto per il film “l’armata s’agapò” censurato dai vertici delle nostre forze armate negli anni ’50. Siamo invece nell’anno di grazia 2016, stagione in cui in Estonia sono prodotte e dirette pellicole in cui le Waffen SS baltiche sono “i buoni” e i russi sono “i cattivi”; non è necessario arrivare a questi eccessi, ma forse una analisi un po’ meno annebbiata ideologicamente sarebbe più utile. Fermo restando che le foibe non erano “cosiddette” come sostiene Focardi.

Un libro un perchè
Alberto Stramaccioni, Crimini di guerra. Storia e memoria del caso italiano, Bari, Laterza, 2016

Difficile capire le ragioni di questo volume, che, nel tono e nella forma pare un manuale sull’argomento dei crimini di guerra italiani, ma che lascia perplessi per la superficialità con cui l’autore affronta un argomento così complesso, sul quale si sono soffermati, con ben altri risultati, diversi studiosi scientifici in tempi recenti. L’analisi parte dalla fine del XIX secolo, che viene affrontato solo di passata con scarsi accenni, per arrivare al primo conflitto mondiale e alle nostre guerre coloniali, sulle quali Alberto Stramaccioni spende qualche parola in più, peraltro sempre facendo riferimento a testi noti, e non tutti appartenenti alla storiografia scientifica più recente. La parte principale del lavoro è incentrata, infine, sul secondo conflitto mondiale e sulla successiva vicenda dell’“armadio della vergogna” eventi per i quali – finalmente – troviamo un approfondimento un po’ più dettagliato. Detto questo, e nonostante una bibliografia sostanziosa, i giudizi espressi dall’autore sono discutibili: pare che la guerra fredda, durante la quale si svolsero tutte le vicende narrate, dalla cosiddetta “mancata Norimberga italiana” fino all’archiviazione provvisoria dei fascicoli sui crimini di guerra tedeschi, sia stata combattuta solo dagli USA contro l’Unione sovietica, quando invece fu uno spietato conflitto ideologico durante il quale furono commesse ingiustizie e soprusi da ambo le parti in causa. Con una sostanziale differenza: sia pure con episodi non commendevoli, come il tacito accordo fra Germania e Italia per “dimenticare” i reati commessi nel corso dell’occupazione nazista, i paesi dell’Europa occidentale furono democrazie in cui lo stato di diritto era pienamente riconosciuto. Lo stesso non si poteva di dire della Jugoslavia di Tito, che se da un lato chiedeva la consegna dei nostri criminali di guerra, dall’altro non era in grado di garantire un processo equo e una difesa efficace agli imputati; L’autore dimentica di annotare che fra il 1946 e il 1950 furono celebrati i processi relativi ad una dozzina alti ufficiali dell’esercito ungherese e tedesco (per non parlare di quelli ai vertici del collaborazionismo croato e sloveno), i quali si conclusero in modo spiccio e tutti con condanne alla pena capitale, eseguite immediatamente. Insomma, a parer nostro non era possibile che le cose potessero andare diversamente da come sono andate, visto che – per fortuna – ci trovavamo dal lato giusto della cortina di ferro. In conclusione ci troviamo di fronte a un lavoro deludente, che propone in modo tutt’altro che originale tesi conosciute da oltre un decennio e che lascia al lettore un fondo di amarezza nel constatare come agli “altri” crimini di guerra, ossia quelli commessi nel nostro paese dalle potenze vincitrici, siano liquidati in una riga e nell’ultima pagina del volume.

Giudici nella RSI
Samuele Tieghi, Le corti marziali di Salò, Sestri, Oltre edizioni, 2016


Il volume di Tieghi è davvero un lavoro ben fatto e documentato, che illumina in modo chiaro ed esaustivo, la vicenda della giustizia nella repubblica di Salò, confermando come le linee di continuità fra forze armate regie e repubblichine fossero tutt’altro che marginali o ininfluenti. I giudici in divisa studiati nel lavoro, infatti, passarono in modo naturale dalle corti del re, a quelle del duce, e, in qualche caso, a quelle della attuale democrazia, operando su codici rimasti praticamente immutati per più di un secolo. Tieghi, in una introduzione ampia e interessante, approfondisce il ruolo della giustizia militare, argomento sul quale esistono studi buoni, ma ormai datati, e di come nel corso del secondo conflitto mondiale si fosse ampliato in modo abnorme il ricorso ai magistrati in grigioverde, specie per i reati commessi dai civili militarizzati, ossia i lavoratori delle industrie considerate strategiche ai fini dello sforzo bellico del regime fascista. Dopo la caduta di Mussolini, invece che diminuire, le sentenze dei tribunali militari subirono una ulteriore impennata, tanto da lasciare incredibilmente centinaia di fascicoli aperti, specie nelle grandi città del nord Italia, successivamente arrivati sulle scrivanie degli ufficiali che avevano messo il gladio al posto delle stellette sulle mostrine. Le biografie di questi, quasi tutti elementi che avevano esperienze di lungo corso nei ruoli della giustizia militare, sono di notevole interesse soprattutto perché indistinguibili dai colleghi che decisero di proseguire la guerra sotto le bandiere del re e di Pietro Badoglio. Pochi si mostrarono entusiasti della svolta estremista di Rodolfo Graziani, caratterizzata dalla parificazione fra “renitenza” e “diserzione davanti al nemico”, decisione che portò decine di giovani davanti ai plotoni di esecuzione; allo stesso tempo praticamente nessuno si dimise dalle proprie funzioni, preferendo alla resistenza attiva una forma di opposizione passiva, fatta di lungaggini burocratiche tramite le quali solo in casi rari si giunse ad infliggere la pena capitale. Va detto che nel volume si affronta soprattutto la vicenda del tribunale militare regionale con sede a Milano, per il quale Tieghi ha studiato la maggior parte della documentazione disponibile. A quanto risulta furono purtroppo diversi i comportamenti degli ufficiali in altre regioni del nord, e quello dei giudici dei tribunali delle quattro divisioni addestrate in Germania, o dei reparti speciali che si occupavano della guerriglia antipartigiana, i quali emanarono sentenze di morte a fronte di procedimenti farseschi. Il dopoguerra, segnato da amnistie particolarmente generose per i vertici della RSI, non ha poi permesso di distinguere i meriti e le colpe dei giudici con il gladio sul bavero. In conclusione Samuele Tieghi ci lascia un lavoro indispensabile sul tema dei tribunali di Mussolini, e uno dei migliori degli ultimi anni sulla giustizia militare.

domenica 24 luglio 2016

militare a Salò

Il fascio, la svastica, il sangue
Massimo Storchi, Anche contro donne e bambini, Reggio Emilia, Imprimatur, 2016

La provincia di Reggio Emilia conobbe nel corso dell’occupazione tedesca una sequenza terribile di episodi sanguinosi causati da nazisti e fascisti, con modalità, ragioni e strategie diverse, e il comune denominatore di essere diretti contro gli indifesi: vecchi, donne, bambini, sacerdoti e, in genere, cittadini disarmati. Nell’analisi puntuale e documentata di Storchi, si resta stupiti dalla ferocia senza freno dei nazifascisti sulle cui motivazioni l’autore si sofferma cercando di cogliere in ciascuno degli episodi narrati un nesso causa-effetto: impresa che si rivela non facile, vista l’eterogeneità delle truppe coinvolte negli episodi di sangue, e la differente prospettiva con cui i leader politici e militari della RSI e le unità della Wehrmacht conducevano la guerra contro il movimento di liberazione: i fascisti fin da subito misero in atto un modello punitivo rivolto ormai non più e non solo verso gli oppositori veri o presunti, ma verso l’intera popolazione, considerata in modo generalizzato nemica della repubblica di Mussolini. Dal sanguinario prefetto Enzo Savorgnan, responsabile delle fucilazioni avvenute nell’inverno 1943-44 fino allo spietato comandante della III brigata nera mobile Franz Pagliani, tragico protagonista a Reggiolo ormai alla vigila della fine della guerra, la sparuta compagine delle camicie nere cercò di acquisire invano credibilità e rispetto seminando terrore a piene mani, in modo giudicato estremo e irragionevole dagli stessi vertici del governo fascista. Diverso il discorso per i tedeschi, i quali replicarono in territorio reggiano lo stesso copione visto in altre aree del centro e nord Italia: nella primavera-estate 1944 reparti scelti per la bandenkampf condussero una serie di rastrellamenti senza riguardo o divisione fra partigiani armati, disarmati o semplici civili. Nell’autunno-inverno 1944 il lavoro “sporco” fu condotto dall’intelligence nazista, presso la scuola di lotta alle bande di Ciano d’Enza: una violenza “chirurgica” che lasciò però nuovamente posto alle esecuzioni esemplari lungo le strade reggiane ancora nel febbraio e marzo 1945. Solo qualcuno dei colpevoli fu processato a guerra finita, e nessuno di parte nazista: i primi nomi tedeschi verranno alla luce solo dopo l’apertura degli armadi a Palazzo Cesi, ossia fuori tempo massimo per colpire gli assassini e i loro complici. Il volume lascia poco spazio alla stagione delle violenze postbelliche, anche se non mancano le narrazioni di episodi sanguinosi avvenuti in vari luoghi della provincia nel corso del 1945; è questo l’unico “peccato veniale” di uno studio altresì pregevole ed equilibrato.

Donne violente
Cecilia Nubola, Fasciste di Salò, Bari, Laterza, 2015

E’ possibile ridurre la vicenda del volontarismo femminile nella RSI narrando le storie giudiziarie di una ventina di autentiche criminali, alcune delle quali con tratti di psicopatia? Secondo l’autrice evidentemente sì, ed è vano cercare nell’indagine un legame fra l’adesione di molte giovani e giovanissime all’ultimo fascismo e il grand guignol di torturatrici, spie e assassine ritratte tratteggiate nel volume. Un argomento così complesso e articolato avrebbe dovuto e potuto meritare attenzioni maggiori, o quantomeno una analisi più cauta, specie alla luce della bibliografia edita nell’ultimo ventennio; purtroppo Cecilia Nubola sceglie invece la strada opposta, quella della “damnatio memoriae” e ci propone una carrellata di aguzzine con almeno due scopi evidenti: la condanna senza appello per le donne fasciste e per il ruolo della donna nella repubblica di Mussolini (relegata a meri compiti assistenziali) e l’accusa di eccessiva indulgenza della giustizia postbellica nei confronti delle recluse per reati politici. Scorrendo senza pretesa di completezza i casi esposti dalla ricercatrice, in realtà ci si trova di fronte, più che al paradigma della militanza femminile in camicia nera, ad una sfilata di devianze patologiche: figlie di torturatori a loro volta rastrellatrici e seviziatrici, amanti di fascisti e delatrici per motivi di rivalsa sociale o politica, per finire con alcune allogene di lingua tedesca che incitavano a Merano alla strage di italiani ormai a guerra finita, come vendetta per la sconfitta imminente e odio verso il nostro paese. In realtà chiunque si sia avvicinato all’argomento, o alle testimonianze di chi ha partecipato a quella esperienza estrema in età giovanile (talvolta adolescenziale) sa che il tema della violenza dovrebbe essere quantomeno declinato fra violenza inferta e subìta, mentre nel lavoro della Nubola non c’è traccia di violenza partigiana, ne’ durante ne’ (soprattutto) dopo il termine della guerra. Il ricordo delle sevizie, spesso a sfondo sessuale, è invece una costante delle testimonianze delle ausiliarie di Salò, diverse delle quali furono in grado di raccontare quegli eventi solo a distanza di decenni. Chi scrive non intende fare rivalsa storica di alcun tipo, o disegnare santini a fini nostalgici o reducistici; però far credere che l’adesione all’ultimo scampolo dell’avventura mussoliniana sia stato un fenomeno irrisorio che coinvolse ristretto gruppo di erinni, con l’intero popolo italiano sulle barricate per la democrazia e la libertà ci pare davvero superficiale e sbagliato.  

Un tradizionalista a Salò
Gianfranco de Turris, Julius evola un filosofo in guerra, Milano, Mursia, 2016-07-19



Il 20 luglio 1944, Julius Evola era presente a Rastenburg all’ultimo incontro fra Hitler e Mussolini, avvenuto immediatamente dopo l’attentato di Klaus Stauffenberg? Partiamo da questo quesito, uno dei tanti presenti nel volume di Gianfranco de Turris dedicato al filosofo tradizionalista e al suo tormentato percorso durante gli ultimi mesi della seconda guerra mondiale. Il volto misterioso che si intravede nella foto di copertina del volume non è però quello di Evola, come immaginato dall’autore, bensì dell’interprete ufficiale nei meeting fra i dittatori, ossia Eugen Dollmann, come si può osservare nel Wochenschau n. 735/1944. La foto, infatti è un fotogramma del cinegiornale e la scena prosegue con Hitler che va incontro ad alcuni operai che lo salutano calorosamente. Se questo è un enigma risolto (anche se non nel senso ipotizzato da de Turris) ci sono molti altri lati oscuri della vicenda del filosofo che vengono finalmente illuminati nella ricerca: la presenza, questa sì accertata, sempre a Rastenburg nel settembre 1943, assieme ad altri gerarchi fascisti fuggiti in Germania dopo il 25 luglio, all’atto della liberazione di Mussolini, il successivo ritorno a Roma dove operò in collaborazione con i servizi nazisti alla creazione di una rete “stay behind” a favore dell’Asse, e successivamente la presenza a Vienna nell’inverno 1944-45. Qui Evola restò ferito a causa di un bombardamento e fu successivamente ricoverato in clinica nella località termale di Bad Ischl dal 1945 al 1947, al suo rientro in Italia, fatto salvo un periodo trascorso a Budapest, durante 1946, nel tentativo di recuperare la funzionalità degli arti inferiori. Ora, quest’ultimo itinerario, che appare accertato, apre però altri interrogativi, iniziando con uno magari banale, ma non secondario: chi pagò la degenza? chi fornì i documenti falsi in possesso del filosofo? Come fece Evola, in piena occupazione dell’armata rossa, a superare la frontiera fra Austria e Ungheria (andata e ritorno) senza destare sospetti e a rimanere nella capitale magiara per diversi mesi? L’amicizia con la famiglia del filosofo austriaco Othmar Spann è cosa certa, ma ci pare riduttiva per spiegare una così lunga e complessivamente serena permanenza in zone dove i servizi alleati e sovietici erano in costante ricerca di collaborazionisti di ogni ordine e tipo. Confidiamo che l’autore possa tornare sull’argomento, perché come in un vaso di Pandora, la risposta ad alcuni enigmi ha finito per crearne altri.

sabato 23 aprile 2016

Abbandono, militanza, violenza


Camerati vi saluto
Mimmo Frnazinelli , Disertori, Milano, Mondadori, 2016

Fossimo stati reduci del secondo conflitto mondiale, probabilmente la lettura delle vicende di chi lasciò nelle peste i propri commilitoni per imboscarsi con la fidanzata ucraina oppure per passare dalla parte dei nemici (perché quelli erano), come i partigiani albanesi o sloveni, ci avrebbero lasciato motivi di profonda irritazione, anche vista l’indulgenza che Mimmo Franzinelli ha nei confronti di chi fece questo tipo di scelta. A margine di questa personale riflessione, riteniamo che il limite dello studio sia la continua alternanza fra l’aneddotica e l’analisi di vicende di spessore maggiore, per cui senza soluzione di continuità si passa da episodi che ebbero scarso o nullo seguito, come gli abbandoni dai reparti impiegati nell’infernale scenario della steppa sovietica (semmai talmente scarse da fare risaltare il senso del dovere di decine di migliaia di italiani) a questioni di rilievo ben diverso, come l’incapacità del regio esercito post armistiziale di riuscire a far rimanere nei ranghi coloro che rientravano nelle classi di leva, o erano rimasti in grigioverde dopo l’8 settembre, in singolare parallelismo con quanto accadeva a Rodolfo Graziani nel settentrione d’Italia. Anche il voler mettere assieme periodi storici oggettivamente differenti per trovare un filo conduttore unico, ossia la fuga dalle forze armate, non giova alla lettura, che spesso si inceppa, o risulta difficoltosa: unire le scelte di coerenza ideologica di chi, prima della caduta di Mussolini, decise in territori occupati dal nostro esercito di passare alle formazioni partigiane assieme alle storie dei pochi (davvero una pattuglia sparuta) che si prestarono allo spionaggio per potenze nemiche, non aiuta a comprendere il fenomeno analizzato. Il fatto poi che le misure draconiane adottate nella RSI per stroncare il fenomeno della renitenza alla leva fossero state paventate anche da diversi alti ufficiali dell’esercito fedele a Badoglio, più che mostrare come l’ideologia fascista avesse plasmato le forze armate nel corso del ventennio, ci fa osservare quanto la crudeltà e il terrore fossero il pedigree del nostro esercito fin dalle decimazioni di cadorniana memoria. In conclusione nell’opera di Franzinelli non mancano spunti di riflessione o narrazioni di episodi sino ad oggi scarsamente conosciuti; questi però risultano immersi in un mare di storie individuali che non permettono al lettore, studioso o semplice appassionato, di trarre una conclusione unica se non quella che la guerra è brutta e non andrebbe mai fatta. Un po’ poco a dire il vero.

L’altra Tagliamento
Stefano Fabei ,la legione Tagliamento in Russia, Edibus, Vicenza, 2015

Difficile capire la terribile Tagliamento di Salò senza studiare la vicenda di questo reparto (uno dei pochi a passare armi e bagagli ai tedeschi dopo l’armistizio) nel periodo 1941-43, ossia nel corso della campagna di Russia, affrontata prima nel CSIR e successivamente nell’ARMIR. Alcuni ricercatori, su tutti Sonia Residori (unica ad aver redatto una monografia sul reparto nel corso dei seicento giorni della RSI), hanno sostenuto che i legami fra le due Tagliamento sono assai esili, se non praticamente nulli. In realtà leggendo il documentato e corposo lavoro di Stefano Fabei, non mancano motivi di riflessione su questo tema. La sanguinosa epopea delle camicie nere in terra sovietica, infatti, fu uno dei miti su cui si basarono le scelte avvenute al momento dell’armistizio. La legione comandata da Niccolò Nicchiarelli (elemento che ebbe un ruolo determinante nella ricostituzione della milizia, poi GNR, sotto le insegne dell’aquila e del fascio) ebbe infatti tragiche perdite in uomini e mezzi nel corso dei due anni trascorsi sul fronte del Don, in alcuni casi paragonabili o addirittura superiori a quelle degli altri reparti del regio esercito. Il fatto in sé, oltre che testimoniare l’indubbio valore del reparto, era la prova palese della assoluta inadeguatezza in termini di addestramento ed equipaggiamento di quella che avrebbe dovuto essere la punta di diamante delle forze armate mussoliniane. Assieme al mito del sangue, si univa poi quello della “patria irriconoscente”, altro tema che avrà un forte peso nelle dinamiche di crudele straniamento della Tagliamento dal tessuto civile del nord Italia, e che aveva premesse corpose e ben alimentate dal comportamento dei vertici della formazione, i quali per mesi lamentarono disattenzione e scarsa considerazione da parte della macchina propagandistica del regime e dei vertici delle forze armate. Il combustibile per una scelta vendicativa e oltranzista, insomma, era pronto per incendiarsi ben prima dell’armistizio; senza considerare le scelte dissennate successive al 25 luglio, quando non venne presa l’unica decisione sensata nei confronti della milizia, ossia il suo immediato disarmo, preferendo l’incorporazione nell’esercito regio, forza militare che aveva considerato le camicie nere un corpo estraneo fin dalla fondazione della MVSN. A parer nostro le vicende conclusive della formazione, ossia la prosecuzione della guerra ideologica iniziata nel giugno del 1940, appaiono diretta conseguenza dei sentimenti di questi fascisti “senza se e senza ma” illustrato nello studio di Fabei, davvero uno dei migliori sull’argomento.

Il sangue sulle montagne
Sonia Residori, L’ultima valle, Istrevi, Vicenza, 2015

La strage di Pedescala, comune montano al confine con il Trentino, fu una delle ultime commesse dalla Wehrmacht nel nostro paese, quando ormai la resa senza condizioni era stata firmata a Caserta dagli emissari di Karl Wolff e Heinrich von Vietinghoff; a cavallo della fine dell’aprile 1945, morirono in questa località e nei suoi dintorni oltre sessanta civili inermi, per cause che l’autrice cerca (finalmente) di studiare in modo scientifico, dopo decenni di ricostruzioni sommarie, distorte, se non semplicemente sbagliate. Prima di addentrarsi nella cronistoria del massacro, Sonia Residori analizza la complessa trama della resistenza in questa parte della provincia di Vicenza, così come la presenza nazista e fascista, altrettanto ramificata ed estesa; due storie solo in apparenza senza sovrapposizioni, in realtà caratterizzate da una serie di “vasi comunicanti” fatti di figure equivoche e doppiogiochisti, traditori dell’uno e dell’altro campo. Un canovaccio complicato che si andò ulteriormente ad aggrovigliare nell’ultima settimana di guerra, quando uno dei rivoli della ritirata generale verso il Brennero risalì la Val d’Astico, trovando le formazioni partigiane del luogo decise a fermare le truppe tedesche ai piedi dell’altopiano di Asiago; la studiosa vicentina evita di soffermarsi sull’elemento scatenante del macello, ossia l’inutile ricerca di chi sparò per primo e chi rispose al fuoco: la questione effettivamente ci pare oziosa visto il contesto generale. E’ invece utile l’indagine certosina sui reparti nazisti presenti a Pedescala e nei suoi immediati dintorni, effettuata anche con l’aiuto di materiale fotografico inedito, dal quale si evince una sicura presenza di elementi paracadutisti e dell’antiaerea germanica fra chi mise letteralmente a ferro e fuoco il paese. Sonia Residori prosegue poi il suo racconto doloroso con il dopo, spesso oscurato in altre narrazioni, ossia le esecuzioni sommarie avvenute ai primi di maggio del 1945 di fascisti e tedeschi che erano stati fatti prigionieri nei giorni precedenti, e che quasi certamente nulla avevano a che spartire con l’eccidio; anche questo pezzo di storia non viene taciuto, così come l’ignavia nazionale delle archiviazioni provvisorie di palazzo Cesi, che non permisero l’individuazione dei colpevoli. Ci troviamo quindi di fronte ad un lavoro complesso e articolato, e assieme preciso e puntiglioso, indispensabile per chiunque voglia approfondire la storia della fine della guerra in Italia, di cui Pedescala rappresenta un sanguinoso e fino a oggi semisconosciuto frammento.

venerdì 22 gennaio 2016

Frammenti di storie scomode

Versioni di comodo
Paolo Paoletti, Sant’Anna di Stazzema, una strage aggiustata, Firenze, Agemina, 2015

Paoletti è l’esempio di uno studioso lontano dalle liturgie accademiche e politiche, e per questo spesso ostracizzato dal mondo universitario italiano, che dei riti della memoria continua in molti casi ad essere gran cerimoniere, purtroppo con scarso discernimento fra le cose da rivedere e quelle da conservare. Ed è proprio attorno a questo snodo che l’autore propone la sua analisi dei fatti sanguinosi che si svolsero nell’agosto del 1944 a Sant’Anna di Stazzema, proponendo una ricostruzione della strage forse non sempre condivisibile, con accenti e giudizi talvolta sgradevoli, ma degni comunque dell’attenzione di chiunque si voglia occupare seriamente delle carneficine naziste e fasciste ai danni dei civili italiani. Non dimentichiamo che Paoletti, ormai quasi vent’anni fa, in assoluta solitudine, aveva sostenuto che l’eccidio non era attribuibile al reparto esplorante della 16° divisione SS guidato da Walter Reder, ma a elementi del 35° reggimento della stessa formazione nazista, tesi oggi acclarata e confermata anche dalle sentenze emesse dalla corte militare di La Spezia, dove dieci anni fa si svolsero i processi agli ottantenni reduci del reparto. Per aver detto quello che oggi tutti sanno, l’autore fu accusato di “revisionismo” da politici, ricercatori, studiosi universitari, salvo poi vedersi scarsamente riconosciuto il merito di quel decisivo passo avanti negli studi scientifici. Non fosse che per questo motivo, il volume andrebbe letto con attenzione, perché anche in questo caso gli spunti di riflessione non mancano. Su tutti almeno due ci lasciano davvero sconcertati: il ruolo dei fascisti versiliani e la vicenda dello sciacallaggio successivo alla strage; la massiccia presenza di italiani a Sant’Anna, confermata da testimonianze e memorie scritte, è stata occultata per decenni, facendola passare per marginale rispetto al ruolo dei nazisti. In realtà le camicie nere, quasi certamente della 36° brigata nera di Lucca parteciparono al massacro, ma la documentazione sui possibili autori italiani pare scomparso, per cui di nessuno di essi si ha una identità certa: insomma, a distanza di sessant’anni dalla strage, è stato possibile trovare in Germania una dozzina di ex SS che senz’altro furono a Sant’Anna, mentre nulla si sa dei fascisti lucchesi, ormai certamente impuniti senza mai essere stati nemmeno indagati. I poveri morti (non sappiamo nemmeno quanti sono, visto che le amministrazioni locali hanno gonfiato le cifre per decenni, fino a un totale del tutto inverosimile di oltre 500) invece furono derubati dei loro averi non certamente dai tedeschi, ma da sedicenti “partigiani” e autentici sciacalli: questione talmente vergognosa e indecente da meritare un silenzio tombale da parte di studiosi e istituzioni. Su altre questioni non secondarie, a partire dalla dinamica dell’eccidio (scientemente architettato o dovuto a circostanze contingenti) al fatto che probabilmente non tutti gli imputati al processo di La Spezia fossero effettivamente gli autori materiali, si può essere d’accordo o meno con Paoletti. Resta il fatto che mai come in questo caso la storia “ufficiale” ha mostrato in settanta anni di essere frutto di supposizioni e versioni di comodo. Forse una lettura attenta di questo studio dovrebbe essere consigliata ai tanti che si sono occupati della strage.

Un altro ebraismo
Vincenzo Pinto, In nome della patria, Firenze, Le Lettere, 2014

Il rapporto tra ebraismo e cultura di destra è sempre stato considerato un argomento “scabroso” in ambito storiografico; non ci pare casuale che, ancora in tempi recenti, nel suo ponderoso studio sugli ebrei italiani Riccardo Calimani abbia affrontato in maniera assai sfuggente questo tema, tanto da riservare uno spazio meno che residuale al convinto appoggio al movimento fascista di buona parte della borghesia israelitica del nostro pese. Pinto, da par suo, riesce invece a strutturare tutta un’altra storia della cultura politica degli ebrei europei, analizzando le biografie di una serie di personaggi scomodi, e spesso sottovalutati per quel che concerne l’impatto che ebbero sulla società ebraica del XX secolo.  Nella carrellata che l’autore ci offre, alcuni profili ci sono parsi davvero degni di nota: Vladimir Jabotinsky ed Ettore Ovazza; il primo, russo di nascita e sionista convinto, che dopo aver combattuto in Palestina con la legione ebraica inglese, negli anni trenta del novecento fu fautore di una soluzione radicale per la nascita di uno stato ebraico su entrambe le sponde del Giordano nella regione allora sotto mandato britannico. Per raggiungere lo scopo cercò anche e invano un accordo con l’Italia fascista nel momento di massima crisi del colonialismo inglese, ossia dopo la conclusione della guerra d’Etiopia e la sconfitta dei repubblicani in Spagna, spingendosi a un oltranzismo che prevedeva la creazione di formazioni armate di autodifesa degli ebrei palestinesi. Questi, una volta scoppiato il secondo conflitto mondiale, avrebbero dovuto creare una sorta di “fatto compiuto” a favore di uno stato ebraico, posizionandosi come elemento a quel punto definitivo con il quale l’impero britannico avrebbe dovuto fare scelte obbligate. La morte improvvisa avvenuta nel 1940 lasciò solo le radici di questo progetto, che comunque ebbe sviluppi non lontani da quelli immaginati dall’intellettuale e politico odessita. Più contorta e tragica la vicenda di Ettore Ovazza, che fece della propria esistenza un cammino diametralmente opposto a quello di Jabotinsky ossia la totale integrazione come cittadini di una patria, quella italiana, a scapito dell’identità ebraica, fino a una sorta di “asemitismo” se non di “antisemitismo” che può apparire incomprensibile se non attraverso le lenti del patriottismo nazionalista – e successivamente fascista – del giornalista e intellettuale piemontese; persino contro l’evidenza dei fatti, ossia la promulgazione delle leggi razziali, Ovazza, e una pattuglia non striminzita di intellettuali ebrei, continuarono ad appoggiare Mussolini, convinti che alla base dell’ostilità contro la comunità degli israeliti italiani ci fosse la posizione politica del movimento sionista verso il regime, quando invece, e più banalmente, si trattava del frutto velenoso dell’asse Roma-Berlino. Purtroppo per Ovazza, la patria a cui aveva dedicato la propria esistenza fu matrigna al punto tale da lasciarlo in balìa delle SS, che massacrarono lui e l’intera famiglia sulle rive del lago Maggiore nell’ottobre 1943. Lo studio di Pinto ci è parso degno di nota non solo per lo stile asciutto “sine ira et studio”, ma anche per la capacità di offrire una analisi completa di uomini che ebbero rilievo come intellettuali a tutto tondo (di passata vogliamo citare anche figure apparentemente minori come Abba Gaissinovic e la sua visione spengleriana di Israele), inseriti in un discorso culturale che li ha visti, ognuno a suo modo, protagonisti dell’ebraismo delle patrie, e “della patria”, quella che nacque solo nel 1948, e non senza travaglio.

Le scelte del 1943
1943 strategie militari, collaborazionismi, resistenze (a cura di Monica Fioravanzo e Carlo Fumian), Roma, Viella, 2015

Il volume, che raccoglie gli atti del convegno omonimo promosso dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione e svoltosi presso l’Università di Padova dal 20 al 22 novembre 1943, offre diversi spunti di riflessione su quello che, a giusta ragione, è stato chiamato “l’anno della svolta” nella guerra mondiale. Pur nel generale buon livello degli interventi, si deve constatare come alcune relazioni siano caratterizzate da interpretazioni semplicistiche e ricostruzioni di maniera, che seguono percorsi tutt’altro che innovativi. Se Richard Overy propone in modo sintetico ma convincente la tesi che ancora nell’estate del 1943 la guerra era ben lontana dall’essere decisa in quanto la macchina bellica del Reich si manteneva su standard produttivi elevatissimi, si rimane sorpresi da alcuni giudizi taglienti espressi da Nicola Labanca su Renzo de Felice e il discorso pubblico relativo alla resistenza: a vent’anni dalla morte, ridurre la produzione scientifica dello studioso reatino a “braccio secolare” delle necessità revisioniste di una fazione politica, lascia parecchio perplessi. Si apprezzano le conclusioni di Thomas Schlemmer sul meccanismo della guerra totale nazista, che finì per fagocitare il popolo tedesco in una spirale autodistruttiva sino al termine del conflitto, e ci paiono condivisibili pure le riflessioni di Paolo Fonzi sul nuovo ordine europeo, di Valeria Galimi sul collaborazionismo francese, Antonio Varsori sulla politica alleata verso l’Italia e di Monica Fioravanzo che torna sulla politica della repubblica di Salò, anche se, va detto, quest’ultimo tema appare sottorappresentato nel complesso dei saggi; si resta invece piuttosto stupefatti dalla decisione dei curatori di lasciare inserito l’intervento di Carlo Smuraglia, il quale per sua stessa ammissione, aveva esorbitato dal ruolo di moderatore per sostituire l’assente Elena Aga Rossi: non era possibile recuperare la relazione prevista dal programma? E in caso contrario, non era forse preferibile lasciare vuoto quello spazio, piuttosto che riempirlo con un piccolo comizio resistenziale? Tornando ai saggi, il tono, purtroppo resta assai variabile: Enzo Collotti, sia pure in maniera stringata, riesce a tratteggiare la nascita e lo sviluppo dell’antifascismo nell’Europa degli occupanti e dei paesi occupati (peraltro dimenticando l’Ungheria), mentre Luca Baldissara sottopone al lettore un esercizio di retorica operaista come non si leggeva da almeno un quarantennio; Wilfried Loth contribuisce a rialzare la media generale del volume con una messa a punto sullo stato degli studi riguardanti l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, mentre in conclusione Simona Colarizi cerca di indagare gli umori dei nostri connazionali nell’anno della caduta del fascismo e del collasso militare e civile e Simon Levis Sullam ripercorre i temi del suo studio sui carnefici italiani nella persecuzione antiebraica. In conclusione, se da un lato appare lodevole l’iniziativa di proporre una riflessione scientifica che potesse ripercorrere i temi di un anno che ha rappresentato un punto di svolta per la nazione nel corso del XX secolo, dall’altro ci si chiede se non si poteva cercare di argomentare la discussione su direttrici che tenessero in considerazione l’evoluzione dell’intera storiografia italiana ed europea sull’argomento. Secondo il nostro parere poteva essere fatto di più e di meglio e resta la sensazione di una occasione mancata.