Versioni di comodo
Paolo Paoletti, Sant’Anna di Stazzema, una strage aggiustata,
Firenze, Agemina, 2015
Paoletti è l’esempio di uno
studioso lontano dalle liturgie accademiche e politiche, e per questo spesso
ostracizzato dal mondo universitario italiano, che dei riti della memoria
continua in molti casi ad essere gran cerimoniere, purtroppo con scarso
discernimento fra le cose da rivedere e quelle da conservare. Ed è proprio
attorno a questo snodo che l’autore propone la sua analisi dei fatti sanguinosi
che si svolsero nell’agosto del 1944 a Sant’Anna di Stazzema, proponendo una
ricostruzione della strage forse non sempre condivisibile, con accenti e
giudizi talvolta sgradevoli, ma degni comunque dell’attenzione di chiunque si
voglia occupare seriamente delle carneficine naziste e fasciste ai danni dei
civili italiani. Non dimentichiamo che Paoletti, ormai quasi vent’anni fa, in
assoluta solitudine, aveva sostenuto che l’eccidio non era attribuibile al
reparto esplorante della 16° divisione SS guidato da Walter Reder, ma a
elementi del 35° reggimento della stessa formazione nazista, tesi oggi
acclarata e confermata anche dalle sentenze emesse dalla corte militare di La
Spezia, dove dieci anni fa si svolsero i processi agli ottantenni reduci del
reparto. Per aver detto quello che oggi tutti sanno, l’autore fu accusato di
“revisionismo” da politici, ricercatori, studiosi universitari, salvo poi
vedersi scarsamente riconosciuto il merito di quel decisivo passo avanti negli
studi scientifici. Non fosse che per questo motivo, il volume andrebbe letto
con attenzione, perché anche in questo caso gli spunti di riflessione non
mancano. Su tutti almeno due ci lasciano davvero sconcertati: il ruolo dei
fascisti versiliani e la vicenda dello sciacallaggio successivo alla strage; la
massiccia presenza di italiani a Sant’Anna, confermata da testimonianze e
memorie scritte, è stata occultata per decenni, facendola passare per marginale
rispetto al ruolo dei nazisti. In realtà le camicie nere, quasi certamente della
36° brigata nera di Lucca parteciparono al massacro, ma la documentazione sui
possibili autori italiani pare scomparso, per cui di nessuno di essi si ha una
identità certa: insomma, a distanza di sessant’anni dalla strage, è stato
possibile trovare in Germania una dozzina di ex SS che senz’altro furono a
Sant’Anna, mentre nulla si sa dei fascisti lucchesi, ormai certamente impuniti
senza mai essere stati nemmeno indagati. I poveri morti (non sappiamo nemmeno
quanti sono, visto che le amministrazioni locali hanno gonfiato le cifre per
decenni, fino a un totale del tutto inverosimile di oltre 500) invece furono
derubati dei loro averi non certamente dai tedeschi, ma da sedicenti
“partigiani” e autentici sciacalli: questione talmente vergognosa e indecente
da meritare un silenzio tombale da parte di studiosi e istituzioni. Su altre questioni
non secondarie, a partire dalla dinamica dell’eccidio (scientemente
architettato o dovuto a circostanze contingenti) al fatto che probabilmente non
tutti gli imputati al processo di La Spezia fossero effettivamente gli autori
materiali, si può essere d’accordo o meno con Paoletti. Resta il fatto che mai
come in questo caso la storia “ufficiale” ha mostrato in settanta anni di
essere frutto di supposizioni e versioni di comodo. Forse una lettura attenta
di questo studio dovrebbe essere consigliata ai tanti che si sono occupati
della strage.
Un altro ebraismo
Vincenzo Pinto, In nome della patria, Firenze, Le
Lettere, 2014
Il rapporto tra ebraismo e
cultura di destra è sempre stato considerato un argomento “scabroso” in ambito
storiografico; non ci pare casuale che, ancora in tempi recenti, nel suo ponderoso
studio sugli ebrei italiani Riccardo Calimani abbia affrontato in maniera assai
sfuggente questo tema, tanto da riservare uno spazio meno che residuale al
convinto appoggio al movimento fascista di buona parte della borghesia
israelitica del nostro pese. Pinto, da par suo, riesce invece a strutturare
tutta un’altra storia della cultura politica degli ebrei europei, analizzando
le biografie di una serie di personaggi scomodi, e spesso sottovalutati per
quel che concerne l’impatto che ebbero sulla società ebraica del XX secolo. Nella carrellata che l’autore ci offre, alcuni
profili ci sono parsi davvero degni di nota: Vladimir Jabotinsky ed Ettore
Ovazza; il primo, russo di nascita e sionista convinto, che dopo aver
combattuto in Palestina con la legione ebraica inglese, negli anni trenta del
novecento fu fautore di una soluzione radicale per la nascita di uno stato
ebraico su entrambe le sponde del Giordano nella regione allora sotto mandato
britannico. Per raggiungere lo scopo cercò anche e invano un accordo con
l’Italia fascista nel momento di massima crisi del colonialismo inglese, ossia
dopo la conclusione della guerra d’Etiopia e la sconfitta dei repubblicani in
Spagna, spingendosi a un oltranzismo che prevedeva la creazione di formazioni
armate di autodifesa degli ebrei palestinesi. Questi, una volta scoppiato il
secondo conflitto mondiale, avrebbero dovuto creare una sorta di “fatto
compiuto” a favore di uno stato ebraico, posizionandosi come elemento a quel
punto definitivo con il quale l’impero britannico avrebbe dovuto fare scelte
obbligate. La morte improvvisa avvenuta nel 1940 lasciò solo le radici di
questo progetto, che comunque ebbe sviluppi non lontani da quelli immaginati
dall’intellettuale e politico odessita. Più contorta e tragica la vicenda di
Ettore Ovazza, che fece della propria esistenza un cammino diametralmente
opposto a quello di Jabotinsky ossia la totale integrazione come cittadini di
una patria, quella italiana, a scapito dell’identità ebraica, fino a una sorta
di “asemitismo” se non di “antisemitismo” che può apparire incomprensibile se
non attraverso le lenti del patriottismo nazionalista – e successivamente
fascista – del giornalista e intellettuale piemontese; persino contro
l’evidenza dei fatti, ossia la promulgazione delle leggi razziali, Ovazza, e
una pattuglia non striminzita di intellettuali ebrei, continuarono ad
appoggiare Mussolini, convinti che alla base dell’ostilità contro la comunità
degli israeliti italiani ci fosse la posizione politica del movimento sionista
verso il regime, quando invece, e più banalmente, si trattava del frutto
velenoso dell’asse Roma-Berlino. Purtroppo per Ovazza, la patria a cui aveva
dedicato la propria esistenza fu matrigna al punto tale da lasciarlo in balìa
delle SS, che massacrarono lui e l’intera famiglia sulle rive del lago Maggiore
nell’ottobre 1943. Lo studio di Pinto ci è parso degno di nota non solo per lo
stile asciutto “sine ira et studio”, ma anche per la capacità di offrire una
analisi completa di uomini che ebbero rilievo come intellettuali a tutto tondo
(di passata vogliamo citare anche figure apparentemente minori come Abba
Gaissinovic e la sua visione spengleriana di Israele), inseriti in un discorso
culturale che li ha visti, ognuno a suo modo, protagonisti dell’ebraismo delle
patrie, e “della patria”, quella che nacque solo nel 1948, e non senza
travaglio.
Le scelte del 1943
1943 strategie militari, collaborazionismi, resistenze (a cura di
Monica Fioravanzo e Carlo Fumian), Roma, Viella, 2015
Il volume, che raccoglie gli atti del convegno omonimo promosso
dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione e svoltosi
presso l’Università di Padova dal 20 al 22 novembre 1943, offre diversi spunti
di riflessione su quello che, a giusta ragione, è stato chiamato “l’anno della svolta”
nella guerra mondiale. Pur nel generale buon livello degli interventi, si deve
constatare come alcune relazioni siano caratterizzate da interpretazioni
semplicistiche e ricostruzioni di maniera, che seguono percorsi tutt’altro che
innovativi. Se Richard Overy propone in modo sintetico ma convincente la tesi
che ancora nell’estate del 1943 la guerra era ben lontana dall’essere decisa in
quanto la macchina bellica del Reich si manteneva su standard produttivi
elevatissimi, si rimane sorpresi da alcuni giudizi taglienti espressi da Nicola
Labanca su Renzo de Felice e il discorso pubblico relativo alla resistenza: a
vent’anni dalla morte, ridurre la produzione scientifica dello studioso reatino
a “braccio secolare” delle necessità revisioniste di una fazione politica,
lascia parecchio perplessi. Si apprezzano le conclusioni di Thomas Schlemmer
sul meccanismo della guerra totale nazista, che finì per fagocitare il popolo
tedesco in una spirale autodistruttiva sino al termine del conflitto, e ci
paiono condivisibili pure le riflessioni di Paolo Fonzi sul nuovo ordine
europeo, di Valeria Galimi sul collaborazionismo francese, Antonio Varsori
sulla politica alleata verso l’Italia e di Monica Fioravanzo che torna sulla
politica della repubblica di Salò, anche se, va detto, quest’ultimo tema appare
sottorappresentato nel complesso dei saggi; si resta invece piuttosto
stupefatti dalla decisione dei curatori di lasciare inserito l’intervento di
Carlo Smuraglia, il quale per sua stessa ammissione, aveva esorbitato dal ruolo
di moderatore per sostituire l’assente Elena Aga Rossi: non era possibile
recuperare la relazione prevista dal programma? E in caso contrario, non era
forse preferibile lasciare vuoto quello spazio, piuttosto che riempirlo con un
piccolo comizio resistenziale? Tornando ai saggi, il tono, purtroppo resta
assai variabile: Enzo Collotti, sia pure in maniera stringata, riesce a
tratteggiare la nascita e lo sviluppo dell’antifascismo nell’Europa degli
occupanti e dei paesi occupati (peraltro dimenticando l’Ungheria), mentre Luca
Baldissara sottopone al lettore un esercizio di retorica operaista come non si
leggeva da almeno un quarantennio; Wilfried Loth contribuisce a rialzare la
media generale del volume con una messa a punto sullo stato degli studi
riguardanti l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, mentre in conclusione
Simona Colarizi cerca di indagare gli umori dei nostri connazionali nell’anno
della caduta del fascismo e del collasso militare e civile e Simon Levis Sullam
ripercorre i temi del suo studio sui carnefici italiani nella persecuzione
antiebraica. In conclusione, se da un lato appare lodevole l’iniziativa di
proporre una riflessione scientifica che potesse ripercorrere i temi di un anno
che ha rappresentato un punto di svolta per la nazione nel corso del XX secolo,
dall’altro ci si chiede se non si poteva cercare di argomentare la discussione
su direttrici che tenessero in considerazione l’evoluzione dell’intera
storiografia italiana ed europea sull’argomento. Secondo il nostro parere
poteva essere fatto di più e di meglio e resta la sensazione di una occasione
mancata.